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La kickboxing e il mio match durato cinque anni

113 match, 110 vinti, 2 sconfitte, uno pari, i titoli WACO Pro italiano, europeo e mondiale. La kickboxing per Massimo Liberati, campione e Maestro, è la vita. Una vita iniziata con un match durato cinque anni quando lui ne aveva solo otto.
MASSIMO LIBERATI

Ho iniziato a combattere a 8 anni.
Da allora non ho mai smesso.
A 8 anni, però, ho combattuto il match più lungo della mia vita, un match senza ring, senza guanti e senza allenamento, giocato dentro casa, nella mia stanza che era tutto un mondo, nel mio letto che a volte lasciavo per continuare in trasferta, quando il letto diventava quello di un ospedale.
Un match lungo quasi cinque anni, ma non fu un match di kickboxing.

Avevo 8 anni, la nefrite non faceva lavorare i reni e mi avvelenava il sangue.
A 8 anni non hai idea di cosa sia la morte, mia madre invece lo sapeva bene e quando il medico le diede poche speranze per me, lei cambiò le carte in tavola e giocò la partita fino in fondo.

Da Roma, in un viaggio iniziato di notte per arrivare di prima mattina, mi portò all’ospedale di Ancona, la sua città, dove conosceva un medico.
Lui capì e fu la mia fortuna; tutto partiva dalle tonsille, mi operò subito, mi salvò, ma la mia vita fino ai 12-13 anni continuò a essere difficile.

Il mio fisico era fortemente compromesso; molto debole, reni quasi inesistenti, dovevo seguire una dieta ferrea, l’attività fisica non era contemplata, passavo lunghi periodi a letto, la scuola era un’opzione non sempre praticabile e alle soglie dell’estate mi colpiva una fortissima allergia, debilitante, che mi lasciava solo verso settembre.

Paolo, mio fratello

Come potete immaginare, la mia salute condizionava la vita di tutta la famiglia.
Anche nelle cose più apparentemente banali.
Quel giorno mio fratello tornò a casa con un borsone da palestra.
L’amore di mia madre, che cercava in ogni modo di non farmi sentire la differenza, le aveva fatto omettere di dirmi che aveva iscritto Paolo a una scuola di judo.
Vidi la borsa, la aprii e trovai il kimono bianco.
Bianco come un pigiama, così mi disse mia madre.
È vero, ero malato, ma il cervello mi funzionava bene; ora la partita volevo giocarla anche io.

La palestra

Faticai non poco, ma alla fine la convinsi.
Le coincidenze fanno sempre la differenza nella vita.
Il giorno che mia madre mi portò in palestra per parlare con il Maestro e capire se, nonostante il divieto del medico, ci fosse una qualche attività fisica che potesse andare bene anche per me, non era giorno di judo.
Saremmo potuti tornare indietro, invece rimanemmo a guardare altri ragazzi in kimono.

Mia madre li vide disegnare movimenti nell’aria, seguire geometrie singolari con il corpo e le braccia, soprattutto vide che ognuno era al proprio posto e che nessuno combatteva se non contro questo avversario invisibile e impalpabile.
Pensò che fosse tutto lì e che persino io avrei potuto fare quello che sembrava più un gioco che uno sport pericoloso.
Quei movimenti senza avversario la tranquillizzano, cede alle mie insistenze e mi iscrive.
Fu così che finì il match iniziato quando avevo 8 anni.

Il Maestro

I ragazzi non stavano giocando.
Quei ragazzi stavano eseguendo dei kata, combattimenti figurati.
Un uomo in kimono li osservava
Era irlandese, si chiamava John Armstead e non insegnava una disciplina qualunque.
John Armstead insegnava il Kung fu di Okinawa, arte marziale tra le più dure.
Né mia madre né io lo sapevamo.
Fu la mia fortuna.

Mi appassiono subito, seguo gli allenamenti con grande scrupolo, gli anni passati a combattere per uscire dalla malattia e dalle sue conseguenze mi avevano dato una grande forza interiore che, adesso, trova finalmente una sua dimensione.
Affrontavo la dimensione del combattimento con deficit fisici ancora da recuperare ai quali, però, la mia testa metteva toppe a colori.
Meno di tre anni e guadagno la cintura nera.

La vita intorno

Il combattimento si alimentava della mia energia interiore, la amplificava e me ne dava altra, abbastanza per affrontare la vita anche fuori dal tatami, una vita per niente semplice.

Mio padre era un artista che, come spesso capita agli artisti, non aveva alcun senso pratico per gli affari.
Apre una galleria d’arte, poteva essere anche una buona idea, ma l’apre a Monte Mario, allora zona di cerniera tra la Roma nord elegante di Balduina e Cortina d’Ampezzo e quella pop di Primavalle, Boccea e Casalotti.
L’impresa fu un disastro e, come se non bastasse, il matrimonio dei miei genitori finisce; mio padre cambia casa, vita e ci lascia pieni di debiti.

Io avevo 19 anni, mio fratello 17 e tutto era sulle spalle nostre e di mia madre che, con il suo negozio di frutteria vuole pagare fino tutto fino all’ultimo.
Si mangia quello che c’è, mai la carne, ma tanta verdura, frutta e legumi, vitamine e proteine pulite che al mio fisico fanno bene.
A chi in quel periodo mi chiedeva quale dieta seguissi, rispondevo che era merito della banca e dei soldi che non avevamo.

In compenso si pagano i debiti, con buona pace dell’amico di mio padre che se saltavamo una settimana quella seguente pretendeva gli interessi, e anche della famiglia calabrese che, dopo un primo incontro duro, ci lasciò liberi di pagare quello che riuscivamo, quando potevamo e senza pretendere nulla oltre quello che avevano prestato.

Una vita che ho lasciato alle spalle, ma che allora mi passava solo quando entravo in palestra, salivo sul ring, combattevo e vincevo.

Dal kung fu di Okinawa alla kickboxing

Nel frattempo, siamo nella prima metà degli anni ’70, arriva in Italia il karate contact e arriva praticamente con una sola regola, quella del ko.
I combattimenti consentivano praticamente quasi tutto e chi si avvicinava era tutta gente con esperienza di arti marziali.

Il mio primo incontro fu in una palestra ai Parioli se non ricordo male.
Quello che ricordo bene è che fu praticamente una rissa.
Mi piacque moltissimo, c’era tanta grinta e determinazione e i miei deficit muscolari e anche organici vengono come al solito messi in paro dalla mia forte determinazione

La disciplina raccoglie quasi da subito successo e seguito di atleti, Ennio Falsoni capisce che è necessario dare un contesto di formalità agli sport da combattimento e mette in piedi la FIAM-Federazione italiana arti marziali.
Anche la disciplina in questione subisce un’evoluzione e da Karate Contact diventa prima Full Contact per arrivare alla Kickboxing di oggi.

Massimo LiberatiEnergia

Se devo descrivere con una sola parola la mia vita sportiva, fatta di Kickboxing in gara ma anche di tanto insegnamento, non trovo nulla di più adatto che energia.

113 match, 110 vinti, 2 sconfitte, uno pari, i titoli Kickboxing WACO Pro italiano, europeo e mondiale sono tutti dentro quella parola, energia.

Così come è il senso di quella parola che da Maestro di Kickboxing cerco in tutti i modi di insegnare ai miei allievi.
Ci vuole energia per avere l’umiltà di imparare e di affidarsi al Maestro, ma ce ne vuole ancora di più per apprendere ogni giorno anche dagli allievi che faccio crescere.
Energia per vedere e filtrare le loro reazioni, le loro emozioni, l’ansia dell’attesa, la paura dell’incontro.
Energia per capire che quello che fa la differenza tra un atleta, anche bravo, e un campione è la testa, la mentalità con cui sali sul ring, con cui cerchi l’avversario per un solo e unico motivo: vincere l’incontro, perché in quel momento il tuo solo mondo è il ring e la tua unica lingua il Kickboxing.

E ci vuole energia per capire che la paura è un sentimento da vivere e non da ignorare, uno stato dell’animo da conoscere e attraversare nelle sue varie sfaccettature, di cui quella fisica è forse solo l’apparenza più visibile.

Storie di Kickboxing

Il ring è un mondo a parte.
Le sue regole valgono solo lì sopra e se sul ring l’energia deve farti essere aggressivo, la stessa energia quando sei fuori deve farti dimenticare tutto, aggressività e paure comprese.
Ognuno dei miei 113 incontri di Kickboxing ha la sua storia, ognuno ha il suo carosello di emozioni,  un particolare o un aneddoto che varrebbe la pena di raccontare.
Impossibile, ovviamente, ma concludo il mio racconto ricordandone due.

Lugo di Romagna, in palio il primo titolo europeo WACO Pro in Italia, interesse mediatico importante.
Alla seconda ripresa prendo un brutto colpo e vado ko, dura un attimo, mi rialzo subito e riprendo a combattere.
Il problema è che io non ricordavo più nulla.
Non ricordavo dove fossi, perché e contro chi stessi combattendo e a nulla valeva quello che mio fratello mi diceva all’angolo, io sapevo solo che dovevo combattere e vincere.
Dopo nove riprese il match fu il mio, ma la mia amnesia retrograda, così si chiama tecnicamente, durò per altre cinque o sei ore.

Monaco. Come direttore tecnico della Federazione, avevo portato i ragazzi a un meeting di Kickboxing.
Allora ero anche il detentore del titolo mondiale WACO Pro.
Uno dei miei incontra un tedesco di origine russa, Mario Dimitroff, forte, ma il mio atleta lo distrugge.

Dimitroff, però aveva un altro obiettivo; lui voleva me, non lo nascondeva e mi provocava continuamente.
Qualche mese dopo mi trovo Mario Dimitroff in una proposta di combattimento.
Dimitroff non era nel ranking e l’incontro, qualunque fosse stato il risultato dell’incontro a lui sarebba andato bene perché gli avrebbe consentito di sfidarmi per il titolo mondiale.
Accetto.

Bolzano, è qui che si combatte.
Arrivo all’incontro non in perfetta forma, la notte avevo dormito poco e male.
Cinque riprese.
Ci massacriamo.
Alla prima ripresa Dimitroff mi incrina due costole che nel corso del match si romperanno e alla fine avrò guadagnato anche quattro punti su un’arcata sopraccigliare e tre sull’altra.

Dimitroff mena, e tanto, ma io di più e vinco ai punti.
Finito l’incontro andiamo in albergo, io sono distrutto e l’unica cosa che posso fare è mettermi a letto.
Saremmo dovuti ripartire la sera, ma non ce la faccio, sono pieno di dolori e immobilizzato; viene il dottore, mi fa le classiche iniezioni antidolorifiche, mio fratello torna a Roma e io, ospite dell’organizzazione, rimango a Bolzano per alcuni giorni.

La mattina dopo riesco a scendere in sala colazione.
Mario Dimitroff è già lì, distrutto anche lui.
Ci mettiamo a parlare come se niente fosse, ognuno masticando male per le botte prese dall’altro.
Il match era finito e, come sempre, è solo sul ring che si combatte.

Il match senza cintura

Le mie medaglie, le coppe e le cinture sono chiuse in un armadio.
Mia moglie vorrebbe che le tirassi fuori, magari che le mettessi in mostra nella mia sala, nella palestra Il Cavaliere Nero.
Non serve.

Quando ho voglia, vado, apro l’armadio, le guardo, le tocco e ricordo.
Ai miei ragazzi devo insegnare con l’esempio di ogni giorno.
E devono sapere che il mio match più importante, quello iniziato quando ero un bambino e durato per cinque anni, in premio non ha avuto nessuna cintura da esibire.

In premio ha avuto la vita.

 

Massimo Liberati

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