The Super Fight. Rocky Marciano, Muhammad Ali e l’intelligenza artificiale

Il primo caso di intelligenza artificiale applicata allo sport. Non oggi o domani, ma l'altro ieri, nel 1970, quando un producer visionario e un elaboratore elettronico NCR 315 entrano nella storia insieme a Rocky Marciano e Muhammad Ali. Non solo un film, ma una traccia di futuro a lungo trascurata.
 Marco Panella
Super Fight

Luglio 1969, Apollo 11, Neil Armstrong, il piccolo passo suo e quello gigantesco per l’umanità. La Luna non è mai più stata così vicina e così piccola come quel 20 luglio, neanche nelle cinque missioni lunari successive, neanche oggi che ci stiamo quasi per tornare. 
Mentre l’impronta di una scarpa sul suolo lunare diventa per tutti la grande suggestione della modernità, accade però che in silenzio, senza clamore, in quei giorni, in una palestra di Miami il futuro mette i guantoni. Li mette sotto i riflettori; la palestra diventa un set, il ring una quinta scenica.
Gli attori sono due, ma non vengono dall’Actors Studio; sono pugili. O meglio, sono due pugili, sì, ma soprattutto sono due giganti. Come posso chiamare Rocky Marciano e Muhammad Ali se non giganti?
Insieme a loro c’è anche un terzo protagonista che però non è l’arbitro, si chiama NCR 315 ed è un calcolatore elettronico grande quanto una stanza, ma con memoria e capacità di calcolo infinitamente inferiori a quelle del telefono che teniamo in tasca.
Nel luglio del 1969, in quella palestra il futuro si chiama Super Fight.

Andiamo per ordine.

Murray Woroner ha una storia comune alla sua generazione.

Aviere nella Seconda Guerra Mondiale impegnato nel Pacifico con il 566° Gruppo Bombardieri, guerra di Corea con il 39° Squadrone Trasporto Truppe, Murray Woroner frequenta una scuola di radio elettronica, diventa giornalista radiofonico, si inventa regista di spot pubblicitari, si sposa e poi, di lavoro in lavoro, inizia a girare gli Stati Uniti.
Siamo negli anni ’60, l’informatica ha già iniziato da più di un decennio la corsa che cambierà la vita di tutti. Murray  è uomo pratico, ma anche visionario, coglie lo spirito del tempo e anticipa il futuro. Come altri milioni di persone, anche lui  è un appassionato di pugilato e anche lui, come tutti, si intriga nelle chiacchiere da bar sul pugile più forte di tutti e di tutti i tempi e di come potrebbe finire un match anagraficamente impossibile, tra un Jack Johnson, ad esempio, e un Joe Frazier.
Il fatto è che mentre gli altri se lo chiedono, lui cerca la risposta e la trova.
O almeno trova il metodo per darla a tutti. Il metodo di Murray non ha un nome, ha una sigla: NCR 315.

NCR sta per National Cash Register, azienda che dal 1884 produceva registratori di cassa, ma che nel 1959 mette sul mercato il suo primo computer commerciale a transistor. Grandi dimensioni, schede perforate, preistoria informatica. Oggi, però, mentre allora era tra i sistemi informatici più avanzati.

NCR 315
(NCR 315)

L’antefatto. The All-Time Heavyweight Tournament and Championship Fight

L’idea è semplice e geniale. Nel 1968 Murray Woroner ingaggia 250 tra giornalisti, pugili, allenatori, arbitri e a ognuno fa assegnare un punteggio a una griglia di 58 mosse, azioni, caratteri e atteggiamenti del pugile sul ring. Fatto questo, seleziona sedici pugili che, nel tempo, sono stati campioni mondiali dei pesi massimi e medio-massimi – tra loro anche il “nostro” Carmen Basilio -, ne raccoglie risultati, notizie, punti di forza e debolezza, schemi e posizioni.
Il gioco è quasi fatto. Per finirlo, la palla passa all’NCR 315 messo a disposizione da un’azienda di Miami, la System Programming Services. Le informazioni raccolte, lavorate in Fortran – al tempo linguaggio di programmazione delle schede perforate – vengono immesse nel calcolatore, diventano dati, l’algoritmo li pondera e determina il risultato di ciascun match. Ogni match a eliminazione diretta, una puntata; risultato,  una serie di 15 puntate, distribuita a 380 stazioni radio con un giro di pubblicità superiore a 3,5 milioni di dollari. Murray Woroner può rallegrarsi.
Il primo torneo virtuale di pugilato, nonché primo esperimento di intelligenza artificiale applicata allo sport e allo show business, è servito. 
Se il torneo è virtuale, le polemiche sono invece reali. Il titolo di primo campione virtuale se lo aggiudica Rocky Marciano, campione mondiale dal 1952 al 1956 che, nella finale impossibile, l’argoritmo fa prevalere su Jack Dempsey, campione mondiale dal 1919 al 1926. Potrebbe finire così, invece no. Ai quarti di finale il match vede Muhammad Ali, campione da poco privato del titolo, vs James Jeffries, campione  dal 1899 al 1905. L’algoritmo per il tramite dell’NCR 315 butta fuori Muhammad Ali.
Apriti cielo!

Super Fight

Muhammad Alì non sta attraversando un bel periodo

Obiettore di coscienza alla chiamata di arruolamento, evita il Vietnam, ma il 28 aprile del 1967 la WBA e la WBC gli revocano il titolo dei massimi che deteneva dal ’64 e la licenza di pugile. Non può più combattere, una mazzata, non l’unica. Processato per renitenza alla leva, Muhammad Ali è condannato a cinque anni e a 10.000 dollari di multa. Ha la fortuna di rimanere a piede libero in attesa di appello, ma per tornare sul ring dovrà attendere il 26 ottobre del 1970 e la riabilitazione della Corte Suprema.  Sono anni maledettamente complicati. Martin Luther King, Black Panters, tanto per dirne un paio. In questo scenario, la portata di Muhammad Ali supera il perimetro del pugilato per diventare simbolo di riscatto dei neri americani ancora vittime di pregiudizio. Per tanti altri, però, lui è il reietto tacciato di tradimento della Patria.
Per sistemare tutto ci vorranno tempo e tanti pugni.

Il fatto è che l’eliminazione ai quarti del torneo virtuale a lui, Campione del Mondo revocato senza essere perdente, brucia e anche tanto. Alla radio e agli organizzatori dice che “l’algoritmo deve essere dell’Alabama” e minaccia una causa per lesa reputazione con  risarcimento milionario.
Murray Woroner è assolutamente convinto di poter estendere la stessa formula ad altri sport, ma per farlo e continuare a guadagnare molto non può permettersi né una causa, né uno scandalo. Dalla crisi esce fuori con un colpo da maestro; non fa un passo indietro, ma rilancia facendone due avanti.  Ad Ali non propone un risarcimento, ma di giocarsela di nuovo.
Non più un torneo solo virtuale, ma un match verosimile con giudizio affidato solo al computer, non più  radiocronaca, ma un film che farà il giro del mondo, non più sedici pugili, ma una sfida a due. Solo a due. I più grandi, i grandissimi. Muhammad Ali e Rocky Marciano.

Rocky, amico mio

Sangue irpino da parte di mamma Pasqualina e sangue abruzzese da parte di papà Quirino – capaci di attraversare l’oceano per cercare di strappare vita alla vita e di fare sei figli da crescere senza fronzoli -, Rocco Marchegiano, classe 1923, italiano di Brockton, Massachussetts, con il fuoco dentro ci nasce e se lo porterà dentro per tutta la vita. A scuola studia senza troppa voglia, fa un po’ di sport, ma nessuno vede in lui un talento. Il lavoro lo pratica da subito; quando va bene fa lo strillone, quando va male consegna ghiaccio e carbone a domicilio. Pesante, ma la fatica non lo spaventa. Come tutti Rocco cresce per strada e ne impara subito le regole: mai farsi mancare di rispetto, mai girare le spalle perché se lo fai una volta, lo farai per sempre. Strada significa gang, scontri, botte da dare e prendere. Potrebbe sembrare un destino infausto, invece è solo una premessa.
Nel ’43 Rocco risponde allo Zio Sam, si arruola, genio pontieri, niente fronte, solo retrovie abbastanza comode nel Galles. Ha 20 anni e un fisico tirato su a risse e fatica. Inizia a combattere nei tornei militari, non ha grande tecnica – non l’avrà mai –, ma specialmente con il destro sgancia colpi che sono macigni e non si tira mai indietro. Quando a scuola avevano spiegato la paura, lui evidentemente era a casa con raffreddore. O forse a fare a botte per strada.

Rocky Marciano

 

Nel 1947 contro Lee Epperson vince il primo incontro da professionista: KO alla quarta ripresa. L’anno dopo lo smacco ai punti subito al Guanto d’Oro contro Corey Wallace gli nega l’avventura olimpica. Mastica male, ma butta giù e guarda avanti. Il destino lo prende per mano il 13 settembre 1948. Quel giorno Rocco Marchegiano fa un passo indietro; sul ring sale Rocky Marciano, nome che suona meglio, più facile da pronunciare e, cosa a cui tiente tanto, non ne nasconde l’origine italiana.
La vita da professionista di Rocky Marciano è impareggiabile: 49 incontri, 49 vittorie di cui 43 per KO. Dal ’52 al ’56 è Campione del Mondo dei massimi; il titolo non glielo toglie nessuno, semplicemente è lui che lascia la boxe. Fighter of the year nel ’52, ’54 e ’55. Non alto e con leve quasi sempre più corte dei suoi avversari, per far scattare il suo destro fulminante – Suzie-Q lo chiamava – sul ring Marciano aveva bisogno di distanza corta e quindi cercava quasi il corpo a corpo. I suoi incontri sono epici. Tutti.
Nel 1969 il panorama è cambiato da tempo. Ormai sono passati già quasi 14 anni da quando ha lasciato il pugilato; adesso è imprenditore con molteplici interessi e qualche successo, fa una vita dispendiosa, ha ovviamente preso chili e si concede molte distrazioni nonostante una moglie, una figlia e un bambino adottato da poco. Quando Murray Woroner gli lancia la nuova sfida ha ormai quasi 46 anni. Lo ascolta, sorride, si ricorda di Rocco che per strada non girava mai le spalle e non ci pensa su neanche un po’.
La vita è una giostra, il ring è la sua.

The Brockton Blockbuster e The Greatest

Imbattuti e forse anche imbattibili. 46 anni, mai sconfitto, ma appassito e fuori forma Marciano che non combatteva da quasi 14 anni; 27 anni Ali, al tempo mai sconfitto anche lui, nel pieno della maturità pugilistica e con dentro la rabbia di chi è stato costretto a fermarsi e che attende una giustizia giusta.
Marciano la prende sul serio, si mette a dieta, riprende ad allenarsi e alle riprese si presenterà armato di parrucchino per nascondere in favore di telecamere la stempiatura che avanza. In fondo fa la cosa giusta: il Super Fight è uno spettacolo e allora tanto vale adeguarsi a quelle di regole, tanto le regole del pugilato sono tutte saltate. L’accordo infatti è chiaro: nessun colpo al viso – ma qualcuno alla fine ci sarà -, solo sparring, realistico, ma sparring, boxe figurata, simulata al punto da impiastricciare il volto di Marciano con del sangue posticcio, salsa di pomodoro o ketchup, vallo a sapere. La sceneggiatura prevede settanta round da un minuto che, montati in post produzione, diventano poi le canoniche riprese da 3 minuti. Nulla è lasciato al caso, neanche il finale; ne vengono girati sette, ma né a Rocky, né ad Alì viene detto in anticipo quale sarà quello scelto, in fondo i 10.000 dollari di ingaggio valgono la sorpresa. A fine di ogni ripresa sullo schermo compare il punteggio assegnato dall’NCR 315 illustrato punto per punto, così da rendere bene l’idea che dietro c’è un ragionamento. Algoritmico, ma ai più, probabilmente, la portata della cosa sfugge.

Super Fight

The Super Fight

Con il senno di 56 anni dopo, il film è noioso, poco più di un match da comica muta. La voce stentorea dello speaker Guy Le Bow che, in apertura del film, annuncia al pubblico inesistente di un Madison Square Garden immaginario l’evento come il più importante del computerized all-time heavyweight chiampionship of the world, non migliora la cosa. Nonostante una sorta di colonna sonora animata da rumori realistici di colpi, sbuffi, fischi e applausi, le inquadrature del ring su fondo scuro – ma con prime file di poltroncine vuote – con le quali si apre il filmato, sono desolanti.
Il terzo protagonista della nostra storia, il computer NCR 315, si palesa a ogni fine ripresa quando, con rumore e font tipici di una stampante ad aghi, compaiono sovraimpressi a video statistiche del match e punteggi assegnati.  Nonostante la finzione, caratteri e qualità dei pugili escono comunque fuori. Marciano lo vediamo cercare il corpo a corpo per colpire con Suzie-Q e spesso quasi si acquatta al tappeto per trovare il varco nella guardia e scattare avanti. Alì danza con la grazia e l’inaspettata forza di una farfalla.
Sono sempre loro, quello che sono stati e, per Ali che avrà ancora tempo, quello che sarà.
Apprezzabile, ma tutto questo, sempre con il senno di 56 anni dopo, lascia un velo di tristezza.
Sicuramente però, così non devono aver pensato le migliaia di persone che il 20 gennaio 1970 sfidarono le temperature invernali uscendo di casa per andare in 1.000 cinema negli Stati Uniti e in altri 500 tra Canada, Messico ed Europa e assistere allo spettacolo dell’incontro impossibile tra i due pugili, allora più grandi di tutti. Tra loro, ospite d’onore in una sala di Philadelphia, c’è anche Muhammad Ali che però quando si accorge che tra i sette possibili, il finale scelto è quello in cui lui, dopo 45 secondi della tredicesima ripresa, va al tappeto sotto i colpi di Marciano, dire che non la prenda bene, è un eufemismo. Nuova minaccia di causa e nuova mossa di Murray che per la versione distribuita nel Regno Unito monta il finale dove vince lui.
Al di là della finzione scenica, qualcosa tra Rocky Marciano e Muhammad Ali però rimane.
Durante le riprese, Ali si rivolgeva a Marciano con grande rispetto, lo chiamava sempre “campione“, mai per nome. Nella sua biografia scriverà “Mi sento più vicino a lui di qualsiasi altro pugile bianco. Parliamo di pugilato come solo gli amici sanno fare, di sangue, di dettagli. Il nostro lavoro è finto, ma la nostra amicizia è diventata reale” e lo ricorderà“…tranquillo, pacifico, umile, non arrogante o vanitoso…merita il suo posto tra i più grandi pesi massimi “.

Super Fight

Le polemiche

Ce ne furono e non poche. Una tra tutte mantiene il valore di una riflessione di stringente attualità.
Nel 1970, in un’America lacerata da questione razziale, guerra del Vietnam e contestazione, si poteva dare al pubblico la vittoria del pugile nero renitente alla leva contro il pugile bianco che la sua guerra se l’era fatta? E poteva il producer bianco, Murray Woroner, che di guerre se ne era fatte persino due, scegliere un finale diverso? E l’algoritmo dell’NCR 315 che assegnava i punteggi in veste arbitrale, poteva non essere stato influenzato dal giudizio – o dal pregiudizio – del suo programmatore?
Seppur in una versione quasi naïf che oggi può far sorridere, Super Fight anticipava il tema dell’interazione tra umani e intelligenza artificiale. Lo faceva declinandolo in un ambito apparentemente leggero, quello dell’intrattenimento sportivo, ma nel quale già allora si rifletteva una riflessione ancora oggi aperta, irrisolta e di dirompente prospettiva. A modo suo e con i suoi limiti concettuali e tecnologici, Super Fight può essere considerato una traccia di futuro la cui portata è stata a lungo trascurata e sottovalutata.

Rocco

Difficile dire se Rocky abbia mai messo da parte Rocco. A me piace pensare di no. A me piace pensare che di Rocky, Rocco sia stato sempre il confidente, il rifugio sicuro, la voce rassicurante. Mi piace pensare che sia andata così anche quel 31 agosto del 1969, quando il Cesna 172 si alza in volo nel cielo dell’Iowa nonostante il maltempo avrebbe consigliato di rimanere a terra.
Rocky Marciano non vedrà mai il finale di Super Fight, non farà in tempo.
Il Cesna va giù e né lui né il pilota si salvano. In quei momenti infiniti sono sicuro che Rocco abbia stretto le mani a Rocky e le abbia trovate nei guantoni. Quelli da portarsi dietro per salire su un ring da dove non scendere mai più.

 

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Marco Panella, (Roma 1963) direttore editoriale di Sportmemory, giornalista, scrittore. Ha pubblicato i romanzi "Io sono Elettra" (RAI Libri 2024) e "Tutto in una notte" (Robin 2019), la raccolta di racconti "Di sport e di storie" (Sportmemory Edizioni 2021), i saggi "Pranzo di famiglia. Una storia italiana" (Artix 2016), "Fantascienza. 1950-1970 L'iconografia degli anni d'oro" (Artix 2016), "Il Cibo Immaginario. Pubblicità e immagini dell'Italia a tavola"(Artix 2015).

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