Cinecittà. Leva calcio 1956/57

Una storia di campi indimenticabili. Una storia di terra, sassi, ginocchia sbucciate e pallone. Altra Roma, altri anni e altri sogni. Indimenticabili anche quelli.
 Stefano Trippetta
calcio

A vederli così, potrebbero essere scambiati per un manipolo di anziani che si ritrovano tutti insieme per una festa di un qualsiasi conviviale tanto per passare qualche ora insieme dopo anni di vita vissuti altrove, chi nello stesso quartiere, chi nella stessa città, chi altrove. Sono carichi di entusiasmo nonostante i tantissimi capelli bianchi, le rughe, gli occhiali. Che cosa gli accomuna? Il gioco del pallone! Chi sono? Sono i ragazzi classe 1956/57 che hanno insieme calcato i campi di periferia estrema di una città che stava crescendo, giorno dopo giorno, nel quartiere più bello del mondo: Cinecittà.

Dal Super Tele alla pensione

Insieme, in quell’iperluogo romano che è Cinecittà, hanno tirato calci a un pallone che sia stato Super Tele, un Santos o un pallone di cuoio bianco e nero con annesso il foro per lo spinotto utile a rigonfiare la sfera. Tutti calciatori in pensione ancora capaci, a parole, di dribblare qualsiasi avversario, crossare e colpire il pallone gonfiando una rete stracciata e ricucita alla meno peggio. Peccato che a quei pochi metri di distanza tra campo e spalti non ci sia una sgangherata tribuna e qualcuno a rivederli. Fotogrammi sbiaditi di un calcio tutto bianco e nero, non per fede calcistica, ma per colore della nostra giovinezza.

Una storia di terra e sassi

Di campi di calcio ne hanno calcati centinaia, tutti uguali, tutti in terra battuta, con la presenza anche di qualche “sassetto”. Campi dove le righe venivano rifatte da un signore quasi sempre grassottello con indosso una tuta invecchiata, il custode, che prima della partita, seguendo una logica tutta sua, interpretava linea retta, circonferenza del centrocampo e dischetto del rigore. Partita dopo partita, pioggia, sole e vento forte sono stati leali compagni, amici e nemici a seconda della circostanza. Campi aridi e duri come l’asfalto o vere e proprie paludi, niente e nessuno fermava la partita. Il tema è sempre lo stesso legato a nomi di squadre, qualcuno caduto nel dimenticatoio, altri invece impressi nella memoria. Bettini Quadraro, ALMAS, INAcasa, Tevere Roma, tanto per citarne qualcuno.

Il campo oltre il campo

Ma i ricordi non si soffermano ai soli nomi delle società di appartenenza; ci sono spazi particolari e tanto altro ancora da ricordare. Gli spogliatoi, sempre gli stessi con le attrezzature fatiscenti, le docce che perdevano acqua in continuazione, era lì che iniziava la partita di cartello. La preparazione con l’odore forte di olio canforato che aleggiava in tutto lo stanzone, le maglie a due colori soltanto, consegnate dallo stesso allenatore ad ognuno, senza neanche uno sponsor, numerazione dal numero uno al numero undici, e via dicendo per quelle poche anime a seguito a fare da riserve.

I riti della partita

Prima della partita e di uscire dallo spogliatoio, era l’allenatore, e non il Mister, a prendersi la scena con il solito discorso, sempre lo stesso, stessi aggettivi, non uno di meno. Si andava poi a riscaldarsi da una parte del campo lontano da quelle gratinate dove c’erano amanti incalliti del pallone a seguire qualsiasi partita, dalla mattina presto fino a quella più importante della giornata. Prima di entrare in campo il mitico appello da parte dell’arbitro dove ognuno doveva dichiarare il proprio nome, girandosi e far vedere il numero di maglia, e chi dimentica…
Il fischio d’inizio veniva anticipato dal saluto dei calciatori a quelle due o tre decine di spettatori tutti ammassati in tribuna. Il calcio d’inizio decretava il costante urlo dell’allenatore che dettava regole e tempi, passaggi e interventi, nessuna lavagnetta, nemmanco un appunto, tutto a memoria. Urla e fischi alla pecorara erano il richiamo per chi in quel momento portava le mani ai fianchi. Questione di secondi, le imprecazioni erano vere e proprie frustate da assorbire velocemente. 

Vincere, non partecipare

Partite facili, partite difficili, lo stesso impegno e la stessa voglia di giocare per vincere, qui De Coubertin non trova neanche un piccolo spazio. Le partite nei paesi limitrofi erano quelle più ardue, contro squadra e tifosi a seguito, non era per niente facile rimanere concentrati. Il gol era infine la liberazione per tutti, chi segnava aveva il solito compito di correre a perdifiato sotto la tribuna davanti a gente sconosciuta raccogliendo insulti e sputi.

Sogni d’autore

Oggi, tutti insieme, quel manipolo di ragazzi di Cinecittà si ritrovano di nuovo a emozionarsi ancora davanti certi ricordi. Qualcuno ha avuto grande soddisfazione di calcare campi importanti, di essere stato un tesserato di società di un certo livello. Chi racconta si emoziona, è normale. Oggi tutti consapevoli di aver riposto nel cassetto il sogno vissuto da calciatore, nessuno dimentica di quelle maledette domeniche di tanti anni prima, novanta minuti di un film d’autore, forse il più bello di Cinecittà.

Stefano Trippetta 66 anni, romano. Scrittore non per vocazione ma solo per passione rivolta alla città che fortunatamente mi ha voluto, scelto e cresciuto. Attraverso il filtro di una buona memoria sono riuscito a dividere questa grande madre: da una parte la Roma del cuore, la Lupa, tatuata con orgoglio; dall'altra quella razionale legata a ogni tipo di cambiamento, atteggiamento, costume.

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