Se penso che anche io, sì, proprio io, Franco Selvaggi, ero lì in campo ad alzare la Coppa, ancora oggi, quando mi capita di rivedere le immagini di quella finale dell’82, mi vengono i brividi al Campioni del Mondo urlato per tre volte dal telecronista, un urlo che non avevo potuto ascoltare in diretta ma che avrà sicuramente fatto il giro del mondo come il po-po-po del 2006.
So bene di essere passato agli annali del calcio come il Campione del Mondo che non ha tolto la tuta e mai sceso in campo. Qualche giornalista dell’epoca ci ha giocato su e magari su franco Selvaggi ha costruito anche qualche storia. Un’affermazione del genere non fa però torto alla mia persona, ma a quell’uomo straordinario che si chiamava Enzo Bearzot che mi volle in Nazionale sin dalle qualificazioni, e pure alla sua onestà intellettuale. Mi aveva visto giocare nell’under 21, io non lo conoscevo personalmente e pensò, probabilmente, che il mio modo di trattare la palla potesse essere funzionale al suo gioco. Avevo già fatto tre campionati favolosi col Cagliari in A, già vincitrice di uno scudetto. Ebbi l’onore della sua attenzione e mi pare di ricordare che non saltai neppure una convocazione alle partite di qualificazione ai mondiali. Eravamo in un girone d’inferno, c’era la Jugoslavia, ricordo che giocammo a Belgrado davanti a circa centomila persone, c’era la fortissima Danimarca. La mia qualità principale era la tecnica, una dote naturale che consolidi nel tempo, solamente se ce l’hai, e che io avevo anche grazie alle tante ore passate in strada a giocare a pallone sin dall’età di otto, nove anni. Ero maniacale, provavo tutti i movimenti, i giri del piede pur di tenere la palla attaccata alla scarpa. Non mi ero formato alla scuola di tecnici o di coach, come si direbbe oggi. Così è iniziata la mia carriera di calciatore che mi ha dato tante soddisfazioni. Da subito come mezza punta, si diceva così un tempo, poi come centravanti, sicuramente atipico, non ero un rapinatore d’area, ma uno a cui piacevano i preziosismi. A me piaceva Inzaghi come centravanti, lo stesso dico di Paolo Rossi, in campo e nell’area di porta erano due rapinatori. Forse Paolo aveva più tecnica. A differenza dei due, io avevo invece la necessità di andarmi a cercare la palla e di lavorarla. Ho fatto un centinaio di goal, neppure uno da rapina, ma ne ho fatti fare molti di più. Ad ogni modo devo ammettere che alla fine conta il numero dei goal fatti, non come li fai fare.
Ai Mondiali dell’82
In Spagna si verificò qualcosa di inatteso, Paolo Rossi si bloccò nelle prime partite e nell’aria si percepiva qualche necessario cambiamento, fortunatamente negli incontri successivi si verificò invece il miracolo e il CT fece la cosa giusta. Mi considero baciato dalla sorte, essere stato accanto a giocatori e, soprattutto a uomini come Tardelli, Cabrini, Antognoni, allo stesso Rossi e a tutti gli altri mi ha fatto crescere calcisticamente e umanamente. Ancora oggi siamo uniti in una chat comune e, purtroppo, corriamo sempre più il rischio di vederci nei momenti più cupi. L’ultimo è stato ai funerali di Paolo Rossi, sono partito da Matera, dove vivo, e ho attraversato l’Italia, su e giù in quarantott’ore. In quella circostanza mi è venuto in mente che noi uomini non dobbiamo vergognarci di affermare di aver pianto. Io l’ho fatto per poche persone, per Paolino, per Scirea, per i miei genitori e per Erasmo Jacovone.
Erasmo Jacovone
Forse pochi lo ricordano, a lui è dedicato lo stadio di Taranto e insieme abbiamo indossato la maglia rossoblù della squadra della città dei due mari, lui per poco tempo, purtroppo. Era il campionato di serie B del 1977/78.
Il Taranto di quell’anno aveva tutti i requisiti per essere promosso in A.
Era la prima domenica di febbraio, mi pare il 5, avevamo giocato e pareggiato con la Cremonese. Ginulfi, per molti anni mitico portiere della Roma, anche per aver parato un rigore a Pelè, quel giorno parò di tutto, e inoltre due pali a Erasmo e uno a me ci privarono della gioia della vittoria. Dopo la partita, la doccia e i soliti saluti io raggiunsi Matera, appena a un’ora di auto. Mi piaceva tornare a casa la domenica sera dai miei. La notte mi raggiunse una telefonata, inizialmente pensai a uno scherzo di cattivo gusto, dall’altra parte del filo mi dissero che Erasmo era stato investito da un balordo ed era morto. Mi vestii in fretta e furia e tornai nella città jonica. Un dolore fortissimo per tutti noi e per Taranto, il martedì allo stadio, che non portava ovviamente ancora il suo nome, si celebrò la messa funebre sotto una pioggia battente davanti a oltre trentamila persone.
Mai vissuta una situazione così struggente.
Col Taranto o con un’altra squadra, in serie A Erasmo ci sarebbe andato. A quel punto del campionato era già il capocannoniere della serie B. La sua dote migliore? L’elevazione in area e i gol di testa, superiore a Pruzzo e a Savoldi, riusciva a superare perfino le mani tese del portiere avversario. La prima partita con lui la giocai in trasferta, a Novara, era appena arrivato e lo conoscevo poco, io invece giocavo già da tre anni con la casacca rossoblù, colori e città che hanno fatto la mia fortuna. In B mi volevano anche Como e Spal, scelsi Taranto perché l’avevo già visto giocare a Matera, squadra e tifo mi erano piaciuti, ed anche perché, come ho detto, la città non era lontana da casa dei miei. Avevo solo ventuno anni.
Ma torniamo a Novara. Insomma, eravamo a dieci minuti dalla fine e sotto di un gol, il campo era fangoso per la pioggia caduta, mister Seghedoni mi disse di entrare e di fare uno dei miei soliti numeri. Come al solito toccò a me battere una punizione da centro campo, vidi Erasmo nel vertice dell’area grande, al mio tocco della palla, lui partì, si innalzò, lo vidi volare e di testa mise la palla in rete. Mi parve un angelo. Mai vista una cosa del genere se non da lui. La partita finì in parità.
Ancora oggi Taranto e la sua gente sono nel mio Dna.
Il Rosso e il Blu
La mia fortuna furono anche i colori sociali, il rosso e il blu, dal momento che dopo Taranto approdai a Cagliari dove fui voluto fortemente da Gigi Riva. Una domenica sera eravamo a Fiumicino per una sosta tecnica, noi dovevamo tornare a casa dopo una partita giocata, mi pare a Varese, e lì incrociammo la squadra del Cagliari. Il mio Presidente Giovanni Fico si fermò a conversare con Gigi Riva e capii che parlavano di me nel momento in cui mi chiamò per presentarmi a quel grande atleta. L’anno successivo indossai la casacca rossoblù della squadra isolana e a questo punto vale la pena di raccontare un altro aneddoto.
Il caso volle che la prima partita da giocatore del Cagliari, si trattava di Coppa Italia, dovessi disputarla a Taranto. Uscimmo dagli spogliatoi e appena mettemmo piede sul terreno di gioco ventimila persone in piedi scandirono il mio nome e mi applaudirono. Un mio compagno, appena dietro di me esclamò “che cosa hai combinato qua, mi sto emozionando anche io”. Non disse proprio così, ma il concetto era quello. Ecco perché Taranto è ancora oggi dentro di me, certe cose non si dimenticano e a Taranto oggi ho ancora tanti amici. Anzi, colgo l’occasione per esprimere la mia felicità e fare tanti auguri al mio Taranto che finalmente ha lasciato quella categoria infernale, parlo della promozione in C.
Alla fine
Se faccio oggi un bilancio della mia vita da calciatore posso dire che a Franco Selvaggi non è mancato nulla e che non avrei potuto desiderare di meglio. Ho parlato di Taranto, Cagliari e della Nazionale. I miei esordi sono stati con la Ternana a diciotto anni, poi a Roma, ai tempi allenata da Manlio Scopigno, dopo Cagliari passai al Torino dove ritrovai Dossena con il quale avevo giocato in Nazionale. Ai tempi del Torino, ero già grande, eppure per ben tre partite ho avuto uno spettatore importante. Mio padre. Lui severo, come poteva esserlo un uomo del sud, non ha mai intralciato il mio sogno di calciatore. In tutta la mia carriera ha assistito solo a tre incontri dei granata, vinti tutti e tre. Nonostante mi avesse portato fortuna, messo sotto pressione da me, non ha voluto saperne di fare da spettatore a un quarto incontro. Ma va bene così. Con Inter e Sanbenedettese ho poi chiuso la mia bella e lunga storia di calciatore, per iniziare quella di allenatore.