Meglio dirlo subito: Steven Bradbury sa il fatto suo. Anche se, vedendo l’inizio di questa storia, potrebbe sembrare il contrario. Non c’è da spaventarsi però, Steven è abituato ad andare oltre le aspettative. Anche solo guardandolo, qualcuno potrebbe illudersi di sapere già tutto: biondo ossigenato, con il piercing al sopracciglio e un forte accento australiano, tutto sembra tradire un’attitudine da classico surfista o giocatore di football. Ma questo è solo il preludio di una storia che di prevedibile ha ben poco. Steven John Bradbury nasce a Camden, nel Nuovo Galles del Sud, nell’ottobre del 1973. Suo padre è un ex campione di pattinaggio di velocità e Steven ben presto segue le sue orme, affidandosi al Roos Speed Skating Club di Brisbane.
Un inizio complicato
La sua carriera agonistica inizia da giovanissimo: a soli diciassette anni vince il campionato del mondo di short track, facendo così ottenere all’Australia la prima medaglia in una disciplina invernale. Scegliere di praticare short track è una sfida già di per sé: gare intense e strategiche, ad eliminazione diretta, dove gli atleti guizzano veloci sopra lame affilate lungo una pista di 111,12 metri; basta aggiungerci la mancanza di fondi e la totale assenza di riconoscimenti ed ecco che appare chiaro quanto sia complicato scegliere di diventare un pattinatore sul ghiaccio in Australia. Bradbury viene dal Queensland, una terra tropicale dove i giovani atleti non sgomitano per prendere parte agli sport invernali, considerando piuttosto il pattinaggio come uno spreco di ghiaccio. Infatti, quando Steven si affaccia sulla scena agonistica internazionale, l’Australia non può vantare neanche una medaglia nei Winter Games. Steven non si lascia intimidire però e, nel 1991, fa parte della squadra vincitrice del Campionato Mondiale di Sydney, facendo così ottenere il primo titolo mondiale all’Australia.
Albertville, 1992
Successivamente Steven è selezionato per partecipare alle Olimpiadi di Albertville del 1992, ma questo è un sogno che dura poco: viene eliminato in semifinale e il suo ritorno a casa non entra negli annali della storia. Steven però non demorde. Sa di poter vincere e combattere contro la frustrazione di non essere riuscito a cogliere quell’occasione che tanto aspettava. Cerca di rifarsi due anni dopo, durante le Olimpiadi di Lillehammer dove, sconfitto nelle gare individuali, si trova a capitanare gli unici tre giovani australiani effettivamente ispirati dalla sua tanto peculiare carriera.
Una squadra particolare
Richard Nizielski, Andrew Murtha e Kieran Hansen, infatti, lo seguono in un territorio mai affrontato prima: le finali di short track in un’olimpiade invernale. Sono gli italiani Maurizio Carnino, Mirko Vuillermin, Orazio Fangone e Diego Cattani a salire sul gradino più alto del podio ma Steven non può nascondere un sorriso di soddisfazione nel sapere che questa vittoria porta – in qualche modo – il suo nome. Ma presto il peso della medaglia si alleggerisce, diviene condiviso e il pattinatore sente di nuovo sopraggiungere la stessa insoddisfazione degli anni passati. La soluzione migliore? Vincere in una gara individuale.
Le difficoltà non diminuiscono
La strada però è lunga e piena di difficoltà. Subito dopo i giochi olimpici, Steven è protagonista di un gravissimo incidente; durante un giro di prova della Coppa del Mondo di Montreal si scontra con un atleta canadese e riporta un profondo taglio sulla coscia destra. Servono 111 punti di sutura e oltre diciotto mesi di riabilitazione per rimetterlo in forze.
Nel 2000, a Sydney, durante un allenamento si schianta contro una barriera e si rompe il collo. Steven non riesce a capacitarsene: dopo aver toccato il cielo con un dito ed essere rientrato fra i primi otto migliori pattinatori al mondo, è difficile scendere a patti con la consapevolezza che, forse, è arrivato il tramonto della sua carriera. È una consapevolezza difficile da gestire, opprimente mentre sale in aereo verso Salt Lake City per le Olimpiadi invernali del 2002.
Salt Lake City
La gara a squadre si rivela un disastro e Steven sta già cercando d’immaginare quale potrebbe essere il futuro di un ex campione olimpico di uno sport che non interessa a nessuno; comunque vada questa è la sua ultima Olimpiade, primo posto o meno. Resta solo la gara dei mille metri e poi questo sogno tornerà ufficialmente nel cassetto, pronto a perdere quella meravigliosa concretezza che fino a poco prima aveva avuto.
Steven però ha ancora fame di vittoria, seppur schiacciato dai grandi nomi degli avversari che lo circondano. Vince la gara preliminare e arriva terzo ai quarti di finale, posizione che in teoria non gli permetterebbe di accedere alla prossima gara. Una scelta sbagliata per un atleta può però rivelarsi salvifica per un altro; il secondo classificato, infatti, è squalificato per ostruzione sul terreno di gara. Steven è ammesso alla semi-finale dove si qualifica secondo, scegliendo di seguire una strategia peculiare: rimanere dietro gli avversari, in attesa di un’apertura in mezzo al groviglio di braccia e pattini.
È così che, per la prima volta nella sua lunga carriera, Steven Bradbury riesce a qualificarsi per una finale olimpionica.
La posta in gioco è molto alta e gli avversari sono agguerriti: Cina, Corea, Canada e America sono le nazioni da battere e tutte con un medagliere molto più guarnito del suo (il cinese Li Jiaju ha vinto l’oro già dieci volte). Bradbury decide di rispettare la stessa strategia di sempre: tenere duro e sperare. “Non vedo perché dovrei cambiare qualcosa proprio adesso”, ammette prima di salire in pista.
Ultimi secondi
Steven Bradbury inizia così gli ultimi novanta secondi della sua ultima olimpiade. La tensione è alle stelle e ben presto si va a delineare una situazione simile alla semifinale, con gli altri quattro atleti davanti e l’australiano che li segue dietro, quasi spaventato mentre si piega ad ogni curva. La gara è quasi arrivata alla fine, mancano solo due giri di pista e Bradubury è way off the pace, fuori ritmo rispetto ai suoi avversari, al punto che rischia di scomparire dall’inquadratura della ripresa.
Ecco che accade l’impossibile
Manca un solo giro e i quattro atleti, tutti con la stoffa dei campioni, cadono come tessere del domino. È la questione di un attimo ma è sufficiente per far realizzare all’australiano che la sua strategia ha funzionato di nuovo. Steven Bradbury taglia il traguardo e diventa il primo atleta australiano a vincere una medaglia olimpionica nei giochi invernali. Per lui è quasi impossibile comprendere appieno cosa è successo, ma ci pensano la folla in visibilio e le note dell’inno australiano che accompagnano la bandiera che sale sul pennone dietro al podio a rendere tutto più reale. La vittoria gli regala un turbinio di emozioni contrastanti, ma gli basta il ricordo dei lunghissimi dodici anni di fatica per rendersi conto che quella medaglia e quell’onore sono la giusta ricompensa.
Ovviamente non ero il pattinatore più veloce. Non credo di aver preso la medaglia grazie al minuto e mezzo di gara che ho effettivamente vinto. La prenderò come segno dell’ultimo decennio di duro lavoro che ho fatto, racconterà poi in Last Man Standing la sua biografia.
Quello che succede dopo
Nel 2005 Steven Bradbury si ritira ufficialmente dal pattinaggio agonistico e intraprende diverse attività: commentatore sportivo per le Olimpiadi invernali, fondatore della Revolutionary Boot Company, specializzata nella produzione di pattini su misura e, per non farsi mancare nulla, anche pilota di Formula Vee. Nel 2007 viene insignito della Medaglia dell’Ordine dell’Australia e inserito nella Hall of Fame australiana. Qualche anno dopo invece, nel 2023, salva quattro ragazze che rischiavano di affogare su una spiaggia del Queensland e riceve un riconoscimento per il coraggio dimostrato.
Ad oggi, in Australia il modo di dire doing a Bradbury ovvero “fare un Bradbury” sta ad indicare una vittoria ottenuta in maniera fortuita, partendo da aspettative tutt’altro che rosee.
Dalla storia si può solo imparare.