I marinai dicono che ogni nave ha un’anima, e che cambiarle nome significa offenderla.
Per questo, quando si parla della Joyita, cala sempre un brivido.
Quel nome, per chi lo conosce, non promette nulla di buono.
Roland West, noto produttore cinematografico, la fece costruire dedicandola all’attrice Jewel Carmen, con la quale ebbe una relazione. La storia tra i due però non durò a lungo, si dice che proprio da quella prima rottura qualcosa di negativo si fosse misteriosamente legato all’imbarcazione.
Ma lo stesso West non aveva una buona fama: il suo presunto ruolo nella morte “accidentale” di Thelma Todd, attrice e sua amante, non fu mai chiarito.
Alcune teorie affermano addirittura che la donna sia stata uccisa sulla Joyita e che la scena del crimine sia stata ricostruita a terra per simulare un avvelenamento da monossido di carbonio.
Una Joyita, tante sfortune
Varata nel 1931, la Joyita ebbe un inizio sfortunato: durante il suo primo viaggio un incendio nella sala motori la danneggiò gravemente, costringendola a tornare in cantiere.
West decise di venderla, la nave venne poi utilizzata per charter privati dedicati alle celebrità di Hollywood. Dopo la misteriosa scomparsa di un marinaio durante una traversata, la Joyita cadde in disgrazia e nessuno volle più usarla.
La seconda vita dell’imbarcazione ha inizio con la seconda guerra mondiale, quando la US Navy la utilizza come vedetta: assegnata alla base di Pearl Harbor, ci arriva proprio il giorno dell’attacco giapponese.
Sopravvissuta all’assalto, la nave venne successivamente dismessa, ma attorno a lei continuarono a verificarsi eventi tragici: il custode morì a causa dell’inalazione accidentale di acido proveniente da una batteria, e poco dopo due operai si uccisero a vicenda durante un violento litigio a bordo.

Cambio di rotta
Dusty Miller ne divenne il nuovo proprietario nel 1955, il quale decise di riconvertirla a nave mercantile alle Isole Samoa.
Ha così inizio l’ennesima vita di Joyita.
Miller, il comandante, si trovava in una situazione economica disperata e, nei momenti di maggiore difficoltà, aveva persino dormito a bordo della sua imbarcazione. Con la nuova spedizione, però, avrebbe potuto accumulare una fortuna grazie al trasporto di merci e passeggeri paganti.
È il 2 ottobre quando dal porto di Apia (Western Samoa) salpa con un carico di legno da costruzione di fusti di oli, sacchi di farina, casse di biscotti, tabacco e sapone. A bordo 25 persone, 16 dell’equipaggio e 9 passeggeri.
Il viaggio sarebbe dovuto durare 48 ore, ma all’alba del 10 ottobre al largo delle Figi un relitto, un’imbarcazione sommersa per metà, taglia l’orizzonte: è lei. Le fotografie del ritrovamento mostrano soltanto una parte del ponte ancora visibile sopra il mare, mentre il resto dell’imbarcazione è ormai sommerso. Iniziano le operazioni di recupero di ciò che è ancora a bordo, ma del carico rimaneva poco e niente, i documenti erano spariti, gli strumenti di navigazione erano stati asportati, un motore era coperto di materassi, i cavi della radio spezzati e le luci accese.
Ma soprattutto mancavano le zattere di salvataggio. Così come l’intero equipaggio.

Cosa è successo?
Da quel momento iniziarono a circolare diverse ipotesi su ciò che era potuto accadere in quelle ultime ore. Le uniche certezze erano che il dramma si svolse durante la notte – gli interruttori della luce elettrica risultarono accesi – e che i venticinque furono colti di sorpresa, alcuni addirittura mentre dormivano, senza riuscire a lanciare alcun SOS, nonostante la radio fosse su una frequenza di soccorso. Secondo la prima ipotesi il comandante, ormai senza possibilità economiche, avrebbe potuto tentare di simulare un naufragio per incassare l’indennizzo assicurativo. Ma nessuna prova ha mai confermato questa ipotesi. Una seconda teoria invece puntava il dito contro qualche tipo di cataclisma naturale: poteva essere stata una tromba marina che alzando il battello, avrebbe costretto gli uomini ad abbandonare l’imbarcazione con le zattere, ma in quei giorni il clima era stato particolarmente favorevole. Oppure un’eruzione vulcanica sottomarina che cogliendo impreparati i naviganti, li avesse costretti ad evacuare velocemente. L’ultima ipotesi sosteneva che la Joyita fosse stata attaccata e saccheggiata da pirati che avrebbero rapito anche i passeggeri. Tuttavia, anche in questo caso, non emerse mai alcuna prova concreta.
Il mistero ancora oggi è rimane irrisolto.
Che i venticinque della Joyita siano invecchiati su qualche atollo vivendo un’avventura alla Robinson Crusoe? Ai più piace credere che sia andata proprio così. Ciò che è certo è che la fama della Joyita ormai la precedeva.

La nuova vita
Gli ultimi anni dell’imbarcazione furono in compagnia di David Simpsons, un inglese che la acquistò poco dopo il naufragio nel 1956. Simpson la rimise a posto con la volontà di rivederla in mare. Riprese il largo l’anno successivo, arenandosi con a bordo 13 passeggeri al largo del mare di Koro davanti le isole Fiji. Venne riparata nuovamente e nel 1958 divenne una nave mercantile in servizio tra Suva e Levuka, ma lavorò per un anno solo prima di arenarsi di nuovo: l’equipaggio in quel caso riuscì a riportarla in mare, ma la nave continuava a imbarcare acqua. Le pompe, montate al contrario, invece di espellerla la facevano entrare.
A questo punto la Joyita si era ormai guadagnata la fama di “nave sfortunata”. Abbandonata dai suoi proprietari su una spiaggia e saccheggiata di tutto ciò che poteva avere valore, la sua sorte sembrava ormai segnata.
Nel 1960 venne venduta un’ultima volta, di lei rimaneva solo lo scafo, inquietante ricordo di ciò che doveva essere stata un tempo, memoria dei misteri che continua a portare con sé.