Il 27 maggio del 1954 si correva la sesta tappa del Giro d’Italia, la Napoli-L’Aquila di 252 chilometri. Gli addetti ai lavori le chiamano “tappe di trasferimento”. Di solito si decidono con una volatona di gruppo o con la fuga di un gruppetto composto da qualche comprimario senza velleità di classifica che tenta la sorte e se gli va bene conquista una vittoria destinata a rimanere il fiore all’occhiello di una carriera per il resto passata nell’ombra. E infatti anche questa volta dopo solo 28 chilometri se ne vanno in cinque. Dopo un po’ tre si rialzano appagati da qualche traguardo volante e così rimangono in testa l’italo-svizzero Carlo Clerici e Nino Assirelli.
Il gruppo si disinteressò completamente della fuga
Fu così che il vantaggio dei due fuggitivi continuò ad aumentare a dismisura e sulla pista in cemento del capoluogo abruzzese Clerici battè Assirelli di mezza ruota o forse meno. Il gruppo degli assi giunse con 34 minuti di ritardo. Quel giorno era nata la “fuga bidone”, ma non lo sapeva ancora nessuno, tanto meno Carlo Clerici che indossò la maglia rosa nell’indifferenza più totale di tecnici, giornalisti e, quel che più conta, di tutti i campioni in corsa.
Forse a questo punto è il caso di dire chi era il nuovo leader della classifica
Carlo Clerici era nato a Zurigo nel 1929, da padre italiano e madre svizzera. La passione per il ciclismo gli era venuta da ragazzo lavorando in officina, dove puliva i telai delle biciclette dei clienti. Cominciò a correre subito dopo la guerra e i successi ottenuti da dilettante nel 1951 gli valsero il passaggio al professionismo nella Condor, la squadra diretta dal grande Learco Guerra e dove incontrò Hugo Koblet, del quale diventò amico e gregario.

Intanto il Giro va avanti e non succede niente
Anche il passaggio sugli Appennini con la scalata dell’Abetone dove Clerici perde solo 2 minuti e mezzo lascia la classifica sostanzialmente immutata. Come succede sempre in questi casi, un gregario con la maglia rosa sulle spalle come per incanto sente moltiplicarsi le forze, e così il nostro “eroe per caso” si difende più che bene anche nella tappa a cronometro di Riva del Garda. Non va in crisi nemmeno nel tappone dolomitico di Bolzano vinto da Coppi, anche perché Koblet, pur essendo il suo capitano, decide di mettersi completamente al suo servizio. Si arriva così alla penultima tappa: 222 chilometri da Bolzano a Sankt Moritz, con la scalata del Bernina, e tutti i tifosi italiani aspettano un’impresa di Fausto Coppi, che deve recuperare ancora mezz’ora su Clerici. E invece i corridori, in lite con gli organizzatori per una questione di soldi, scalano la salita svizzera tutti insieme ad andatura turistica. È il famoso “sciopero del Bernina”.
Solo a pochi chilometri dall’arrivo, quando ormai la maglia rosa di Clerici era in cassaforte, scattò Koblet; al suo inseguimento si lanciò il vecchio Ginettaccio Bartali un po’ per dare retta al suo carattere ribelle e un po’ per evitare i fischi del pubblico inferocito. Sul traguardo primo Koblet, secondo Bartali a 1’46”, poi il gruppo a una manciata di secondi.
Il gran finale
Il giorno dopo gran finale al Vigorelli con volatona vinta da Van Steenbergen e una valanga di fischi per tutti i grandi. Classifica finale: primo Clerici con 24’16″ su Koblet, 26’28″ su Assirelli e 31’17″ su Coppi.
L’indomani qualche giornale titolò “È nato un campione”. Non era vero. Clerici tornò al ruolo di gregario restando al servizio del suo amico Koblet; l’unica altra sua vittoria di rilievo fu il Campionato di Zurigo nel 1956. Poi alla fine del 1957, a soli ventinove anni, concluse la carriera. Un gregario come tanti, che però in “uno di quei giorni che ti prende la malinconia” è entrato nella piccola-grande storia del ciclismo.