George Foreman. Il destro di Dio

Non la notte di Kinshasa per ricordare George Foreman, ma il ring di Mexico City, non Ali buma ye, ma la bandierina sventolata a centro ring per onorare l'oro olimpico appena conquistato e rivendicare il suo essere orgogliosamente americano. Una foto che di George Foreman racconta vita, storia e destino.
George Foreman

Texas, immaginario a stelle e strisce, cow boy con lo Stenson in testa, rodei, JFK ucciso da un improbabile Carcano 91, e “Houston abbiamo un problema”, frase tra le più iconiche della storia dello Spazio. Texas è America profonda e George Foreman l’America se la sentiva tutta dentro e addosso anche se quando nasce, nel 1949, a baciarlo non c’è la fortuna e neanche un padre, un veterano che pensa bene di andarsene di casa quasi subito.

Pugni alla vita

A George il cognome lo darà l’uomo che la madre sposerà dopo qualche tempo, ma la musica non cambia molto; l’ambiente è degradato, la famiglia è poverissima, le liti tra moglie e marito continue. George è un ragazzino problematico e le strade di Houston lo fanno crescere in fretta; bande giovanili, risse, piccoli furti, riformatorio, pugni che fanno male, pugni in faccia, ma soprattutto pugni a una vita che di lui sembra non volerne sapere. Ma lui è George Foreman, è alto 1,92 e picchia così forte che alla vita fa cambiare strada. Come tanti è affascinato dal football, ma un maestro di boxe lo vede menare, intuisce, lo convince, lo porta in palestra e inizia a farlo allenare. Tanta forza e poca tecnica, vecchia scuola, guardia aperta, braccia che si allungano per interdire i colpi dell’avversario, braccia veloci capaci di cambiare direzione quando sono già scattate in avanti. Sul ring George non va di fino, ma non importa perché quando lui ci sale, lì sopra non ce n’è per nessuno.

Mexico City

Per i pesi massimi, gli anni sessanta sono un’epopea. Alle Olimpiadi di Roma del ‘60 l’oro è di Cassius Clay che solo dopo diventerà Muhammad Ali, a Tokio nel ’64 l’oro è di Joseph Frazier. Il primo passerà alla storia per essere The Greatest, il secondo come Smokin’ Joe. Nel 1968 le Olimpiadi di Mexico City si annunciano con la strage di Plaza Tialelolco, dieci giorni prima dell’inaugurazione olimpica, con un numero mai precisato di studenti uccisi negli scontri con l’esercito: 50, 60 per le fonti governative, ma con un numero che probabilmente sfiora i 300. L’atmosfera non è delle migliori. Il 16 ottobre due velocisti afroamericani, Tommie Smith e John Carlos sono primo e terzo sul podio dei 200 metri. Ricevono la medaglia, ma quando suona l’inno, i due alzano un pugno chiuso guantato di nero al cielo e chinano la testa.  Entrano nella storia ed escono tra i fischi delle tribune.
Il 24 ottobre alle semifinali dei pesi massimi il nostro Giorgio Bambini ha tutte le buone intenzioni di prendersi la finale e ci crede fino all’inizio della terza ripresa quando un pugno che sembra una mazza ferrata lo mette in ginocchio. Contato, si rialza, ma l’arbitro coreano decreta il KO. Sul ring c’è un nero che lo guarda. Ancora una volta il pugno di George Foreman non ha lasciato scampo.

La mia bandiera

Il 26 ottobre la sfida finale è un classico da guerra fredda, USA vs URSS, Foreman vs Cepulis. A fine primo round il russo è una maschera di sangue, il secondo round dura un’infinità, il russo sanguina ancora ed è poco più di uno sparring partner sotto i colpi pesanti di Foreman. Il KO tecnico è solo tardivo, George Foreman è oro olimpico, il terzo americano degli anni sessanta e tutti e tre con un destino che li vedrà incrociare i guanti nel decennio successivo. C’è qualcosa di più, qualcosa che spiega adesso quello che accadrà a Kinshasa nel 1974.
George Foreman, figlio povero del Texas, nero come Tommie Smith e John Carlos, non alza pugni chiusi, ma dall’angolo prende una bandierina americana e con questa in mano va a centro ring, la alza e la sventola. La sventola e rivendica la sua origine e la sua appartenenza, americano e fiero di esserlo.

Il senso della sfida

Per molti è un tradimento della causa per l’emancipazione e per i diritti dei neri d’America. Lui fa spallucce, che poi sono spalle di un gigante, e non se ne cura. Nel frattempo Cassius Clay era passato professionista, era diventato campione del mondo nel 1964, si era convertito all’Islam prendendo il nome di Muhammad Ali e nel 1967 si era rifiutato di andare a combattere in Vietnam la guerra dei bianchi. Un idolo, non più solo un pugile.
Anche Foreman, anzi Big George come iniziano a chiamarlo perché lui era grande, grande veramente, passa al professionismo e nel 1973 diventa campione del mondo mandando sei volte al tappeto Frazier. Non uno qualunque. Ali è ambizioso, ha qualche anno in più di Foreman, ma non se ne preoccupa.

Kinshasa ‘74

La sfida del secolo è fissata per il 30 ottobre 1974 a Kinshasa, nello Zaire. Il luogo non è casuale. Mobutu è un dittatore che gioca la sua immagine internazionale facendosi paladino dei neri sfruttati dall’imperialismo, ovviamente americano. I dieci milioni di dollari che mette sul piatto per organizzare un incontro che gli darà visibilità internazionale sono un boccone ghiotto per Don King che si mette all’opera per organizzarlo. Un incontro che non è solo un match di pugilato, ma una resa dei conti tra un nero che voleva essere integrato con i bianchi americani, Foreman, e un nero che invece era diventato un simbolo dei neri che quei bianchi americani privavano di diritti e dignità, Alì.  La sera del 30 ottobre lo stadio Tata Raphael di Kinshasa rimbomba con le voci di centomila che gridano Alì buma ye. Senza equivoci possibili, i centomila gridano Alì uccidilo. La vittima predestinata non tira indietro. Foreman pensa di avere l’incontro in mano, ma contro tecnica e strategia di Ali, la forza di Foreman questa volta non basta. All’ottavo round Ali trova il colpo, esce dalle corde e colpisce ancora una, due, tre volte, poi montante sinistro e poi ancora un destro senza un domani. È il primo e unico KO della vita di George Foreman. Io, in fondo, preferisco pensare che sia stato solo un nuovo inizio.

Il ritiro e il ritorno

George combatterà ancora, ma nel 1979 si ritirerà. Smette di dare pugni perché ha iniziato a parlare con Dio. Ci parla, lui gli dice di predicare e George lo fa. Lo fa rinunciando a tutto quello che ancora gli potevano dare la celebrità e la ricchezza, lo fa andando in giro per le strade, tra gente povera che non ha nulla e a cui lui vuole dare almeno una speranza. Fa così per dieci anni, poi il pugilato torna a morderlo. Lui è sempre Big George e vuole dimostrarlo. Torna a combattere come se niente fosse anche se dieci anni senza ring e senza allenamenti sono un’era geologica. Dio, però, forse veramente è con lui.

Las Vegas ‘94

Il 5 novembre 1994 all’MGM di Las Vegas, Big George è appesantito e senza capelli, ha 45 anni e una vita iniziata senza bacio del padre e senza fortuna. Sul ring davanti a lui c’è Michael Moorer, 27 anni, campione del mondo che pochi mesi prima aveva mandato ko Evander Holyfield.
Foreman lo guarda e tutta la sua vita gli ripassa davanti agli occhi. Chiede consiglio a Dio e poi inizia a fare quello che sa fare meglio: picchiare. Gli anni non contano. Alla decima ripresa un destro alla mascella manda Moorer al tappeto. Ventuno anni dopo il primo titolo, George Foreman torna campione del mondo. Non durerà molto, ma se nel pugilato è esistito un destro di Dio, è stato sicuramente il suo.

L’altra vita

Nella sua vita oltre il pugilato, oltre che predicatore George sarà imprenditore di successo, avrà cinque mogli e dodici figli.
Con Muhammad Ali diventerà amico e insieme nel 2001 saranno a Hollywood come testimonial dell’Oscar assegnato a We were kings di Leon Gast, documentario dedicato al match di Kinshasa. Ali è già malato e George è con lui, appena dietro, pronto a sostenerlo.
Ora che anche Big George è andato avanti, molti lo ricorderanno per la sconfitta di Kinshasa. Io preferisco ricordarlo per la bandierina americana sventolata sul ring di Mexico City quando non era comodo farlo. Ma lui era il destro di Dio. Lui se lo poteva permettere.

 

 

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Marco Panella, (Roma 1963) direttore editoriale di Sportmemory, giornalista, scrittore. Ha pubblicato i romanzi "Io sono Elettra" (RAI Libri 2024) e "Tutto in una notte" (Robin 2019), la raccolta di racconti "Di sport e di storie" (Sportmemory Edizioni 2021), i saggi "Pranzo di famiglia. Una storia italiana" (Artix 2016), "Fantascienza. 1950-1970 L'iconografia degli anni d'oro" (Artix 2016), "Il Cibo Immaginario. Pubblicità e immagini dell'Italia a tavola"(Artix 2015).

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