Il silenzio nelle mani. La vita è un’avventura, quella di Mario D’Agata parte da Arezzo e, si capisce da subito, non si sa dove può andare a finire. Il papà è di Catania, per farla breve, perché spiegare dov’è e cos’è Fiumefreddo è fatica e lui è stanco: sei figli, il pane poco ed il companatico pure, quelle tre stellette dell’esercito brillano di una luce fioca sul futuro.
Mariolino non sente, è nato così
Mario non sa sognare, sembra destinato a non riuscirci. La mamma lo aiuta, tutti lo aiutano, ma serve una scuola, delle competenze, delle direzioni. L’istituto di Siena arriva alla terza media, ma soprattutto avvicina ragazze e ragazzi ad avvicinarsi al mondo con il lavoro. Sarti, falegnami, calzolai, disegnatori. Mario ci si mette d’impegno, con le mani ci sa fare. Sa intagliare, dipingere, decorare la ceramica ed incidere il legno, ci sa fare con scalpelli, mirette e sgorbie. La mamma si commuove davanti ad ogni suo piccolo lavoro.
Mario non parla, ma cresce e con lui la curiosità
Con gli amici va ad una riunione di pugilato alla buona, sul ring sono tutti militari inglesi, cattivi ma tecnica poca. Mario si diverte da matti, torna a casa tirando colpi al vento, ha diciassette anni, è uno di quelli “diciassette anni tutta la vita“, non vuole far male a nessuno, ma sfogarsi sì fino a far male a qualcuno. È piccolo, magro, scattante. La palestra dell’accademia pugilistica aretina lo accoglie a braccia aperte, il maestro Bruno Giuliattini riconosce la fame, il cuore e cerca uomini prima, campioni casomai.
È l’identikit di Mario.
A venti anni il primo vero incontro, tre riprese
È l’inizio di qualcosa che non si sa, vittoria su vittoria, il miglior Gallo di Toscana, è lui maremma bona. Mario non sente e l’arbitro gli deve sempre dare un piccolo colpo sulla spalla per segnalare la fine del round. Non è problema per nessuno tranne i parrucconi federali che lo vedono come un ostacolo al passaggio verso il professionismo. Si invoca il buonsenso, la normativa USA dove la questione non sussiste, ma niente da fare.
Mario ha 24 anni quando, finalmente, una petizione – primo e decisivo firmatario, l’aretino Amintore Fanfani – lo riporta tra le corde per frantumare il soffitto delle ipocrisie in mille pezzi.
Sul ring siamo tutti uguali
Mario non parla, ma oramai è certo di una cosa. Gli ostacoli della vita si superano sul ring dove tutti siamo uguali. L’esordio nella boxe dei grandi è del 14 ottobre 1950 con l’esperto Giuseppe Salardi, regolato ai punti sulla distanza delle sei riprese. Dopo tre anni, tante vittorie e qualche intoppo, arriva la possibilità di combattere per il titolo italiano. Siena si mobilita, il teatro Politeama è una bolgia che trascina Mario alla vittoria sul cagliaritano Gianni Zuddas, oro agli europei dilettanti di Oslo ’49 e soprattutto argento di Londra ’48. Mario è tenacia ed esplosività, il soprannome di piccolo Marciano sintetizza al meglio tutti i pregi di scherma e carattere. Mario continua a vincere; la rivincita con Zuddas e la trasferta di Napoli con il beniamino di casa Luigi Fasulo sono il lasciapassare per uscire dai confini nazionali. La trasferta australiana esalta la comunità italiana di Melbourne e ridimensiona due candidati alla corsa per il mondiale di categoria, l’eroe locale Robert Roy Wills ed il californiano William “Sweet Pea” Peacock.
Sfida alla corona
Mario non sente, ma scala le gerarchie e la voce che sia lui il prossimo sfidante alla corona dei Gallo lascia il grattacielo della boxing corp. di New York per entrare in tutte le palestre italiane. Giuliattini spera di annunciare urbi et orbi, quando la notizia – la più inaspettata – arriva in un pomeriggio che il cielo qualcosa doveva sapere. Colpi di arma da fuoco, un fucile si saprà poi, hanno centrato l’emitorace destro di Mario al termine di un diverbio con un commerciante, tale Giuseppe Petitto, con cui divide la proprietà di una tintoria centro città. Di mezzo un’ingiunzione di pagamento per un paio di milioni di lire ed una cambiale protestata. Mario disarma l’aggressore della pistola, ma non considera il fucile che sta nel retrobottega. Va di lusso: intervento al polmone, venticinque giorni di prognosi, tempo di recupero tre mesi ma per combattere sei forse di più. Al Petitto invece vanno sei anni di reclusione. Mario non conosce rancore e le foto di tutte le pubblicazioni, sportive e non, rassicurano. Sorride e “ci vediamo presto sul ring” dice dal letto d’ospedale. Due ali di folla lo attendono all’uscita del S. Maria sopra i ponti di Pontedera, lui strafelice tra mamma e la fidanzata Luana.
Mario non sente, ma ha messo le ali, riparte e non si ferma più
Risale la china, sembra più determinato, chiude spesso prima del limite. Dodicimila tifosi tutti per lui riempiono il palazzo dello sport milanese per l’europeo con il francese André Valignat. Tre riprese di studio e cambio di passo dal primo minuto della quarta. Ganci, montanti, francese chiuso, assediato, ne esce con una testata ed il richiamo ufficiale. Quinta ripresa fotocopia, Mario d’assalto, Valignat a scappare ma non c’è via di fuga, se non piazzare un’altra capocciata. Squalifica e cintura continentale per il più forte, il più vero. È il momento giusto per coronare il sogno con Luana, la ragazza di San Frediano, conosciuta al rientro dalla tournée downunder. Luana, come Mario, non sente, ma lo sente quel cuore che batte forte solo per lei, accidenti se lo sente e così, nel 1956, arriva Annamaria, la loro vittoria più bella.
Mario non parla, ma il 1956 gli è amico, è anche l’anno della sfida al titolo iridato
Sono 23 anni esatti, dal 29 giugno 1933, quando Primo Carnera entra nella storia della boxe con il nostro primo titolo mondiale, la vittoria sul lituano Jack Sharkey. Qui c’è Robert “Gambuch” Cohen, quattro anni più giovane, dall’Algeria francese e un pugno che può far male. Roma bolle, l’Olimpico ha visto i suoi quarantamila biglietti volatilizzati in un baleno, nonostante i prezzi da capogiro fissati. Carlo Della Vida (n.d.a. piccola digressione, l’onore di averlo conosciuto) è il promoter perfetto, la macchina organizzativa è degna dei grandi eventi stelle e strisce. Mario chiama, Roma risponde, l’apertura dei cancelli è sei, sette ore prima del gong, la Sud è subito piena, anche la tribuna principale che Mario ha chiesto di destinare ai ragazzi dell’associazione sordomuti. Applausi per la marsigliese, ma quando si alzano le note di Mameli sono in tanti con gli occhi bagnati.
Il trionfo dell’Olimpico
Mario non può perdere. Cohen però è osso duro, cerca di sfruttare la pressione a suo favore. Spezza il ritmo, cerca la clinch in modo ossessivo, è rapido, molto rapido, anche le scorrettezze sfuggono. Lo squarcio all’arcata del sopracciglio sinistro di Mario da dove viene? Se lo chiedono tutti al termine della seconda ripresa. Il medico fa il suo, Mario raddoppia le cadenze, sa che qui si deve chiudere prima possibile. Vince la terza, la quarta, tanto lavoro ai fianchi per preparare qualcosa di grosso, definitivo. Nei secondi finali della sesta ripresa il destro di Mario centra la mandibola di un avversario sempre più incerto sulle gambe. Cohen viene salvato dalla campana, ma non è più lui, non può continuare. Mario è campione del mondo, Roma è Arezzo, Roma sale sul ring, Arezzo scende in strada. Scorre il film della vita tutta, mentre srotola le bende dalle mani: il silenzio, l’istituto, il colpo di fucile, Luana. Anna Maria nostra. Tutti i suoni del mondo.
Mario D’Agata è Campione mondiale dei Gallo titola a nove colonne la prima pagina della rosea prima ancora di esaltare il record dell’ora di Anquetil. Relegata a margine la sfida al Brasile di Djalma e Nilton Santos del giorno dopo.
Vita da campione
Mario difende la corona con lo spagnolo Cardenas e poi con il francese Tartari. Non è un fuoco di paglia, è semplicemente il più forte. Al terzo assalto con l’altro franco-algerino Alphonse “the little terror” Halimi, al Vel d’Hiv di Parigi, ma con gli italiani ben rappresentati sulle tribune, Mario D’Agata ritrova l’avversario che non si aspetta, che non sa come prendere. Non è una schioppettata stavolta, ma il lampadario che viene giù sul ring dopo un corto circuito nel bel mezzo della terza ripresa. Dei frammenti, visibili le escoriazioni, finiscono sulla spalla del pugile italiano. La ferita è poca cosa, ma il buio non fa per lui sin da piccolo, tutto è surreale.
Il vantaggio accumulato con le due prime riprese condotte magistralmente sembra poca cosa davanti a dover affrontare altre dodici riprese e vecchie paure. Les pompiers, idoli storici dei nostri cugini (va bene, lo so non abbiamo cugini, è un modo di dire) sistemano l’impianto a tempo di record e si può riprendere a combattere nel giro di venti minuti. Mario però è un altro, non ritrova l’impeto né la continuità d’azione necessaria. Halimi controlla e dove non arriva con i pugni, arriva l’arbitro belga con richiami sistematici. Il verdetto tuttavia ci può stare, Halimi ai punti, ma che non sia stata una serata regolare si può altrettanto dire senza partigianeria. Ci sono, insomma, tutte le premesse per una bella rivincita – e perché no, in Italia -, ma non succede per quei misteri (aka giochi di potere) di cui la boxe ha spesso faticato a sottrarsi.
Mario sfoga la rabbia riprendendo il titolo europeo con il ko al malcapitato marchigiano, Federico Scarponi, all’Amsicora di Cagliari (n.b. quindicimila spettatori, sempre bello rimarcare la popolarità di una disciplina nel cuore dei nostri padri).
Guantoni al chiodo
Mario riprende, mattone dopo mattone, a ricostruire le sue credenziali per tornare sul tetto del mondo. Vola a Los Angeles per misurarsi con José Becerra, chi vince sarà sfidante ufficiale.
Il messicano di Guadalajara è l’astro nascente, punge e scappa, ne ha di più, vince ripresa dopo ripresa, dall’angolo Steve Klaus richiama l’arbitro per segnalare la ferita all’occhio sinistro, Mario non torna a centro ring per l’inizio dell’undicesima. È la sua unica sconfitta prima del limite. Combatte fino a trentasei anni, lasciando il titolo italiano proprio a Scarponi.
19 luglio 1962, guantoni al chiodo senza far rumore.
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