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Torino, gli inglesi e la Coppa del Mondo dimenticata

Il calciatore carica il destro per quello che sembra più un rinvio che un tiro, il minatore è sdraiato a terra a tirar colpi di piccozza. È la statua in bronzo che da qualche anno, nei giardini della cittadina di West Auckland, Inghilterra ricorda la prima Coppa del Mondo di calcio. Una forzatura certo, solo quattro nazioni partecipanti, ma è per il primo torneo internazionale realmente tale. Siamo nel 1909, siamo a Torino.
Torino 1909

Tra scetticismo e la traversa centrata da Marco “schizzo” Tardelli, 14 giugno 1982 l’Italia di Bearzot inizia dalla lontana Galizia – la dolce Vigo – la lunga marcia fino al Graal che Dino Zoff sollevò al cielo azzurro di Madrid. Quella stessa sera, senza fanfara, ITV cerca di rintuzzare l’eterna sfida con la corazzata BBC con un nuovo film per la TV inglese: si chiama “A captain’s tale“, lo vedono in pochi e dopo quel giorno pochissimi. È la storia impossibile della prima coppa del mondo vinta dal West Auckland, piccolo club inglese tra Durham e Darlington. 

Torino 1909
(West Auckland. In memoria di Torino 1909)

Sir Thomas Lipton

Chi non ha mai tagliato un articolo di giornale per conservare il ricordo di una partita si può fermare qui. Gli altri possono chiudere gli occhi ed ascoltare il racconto, possibilmente “a las cinco de la tarde” quando gli spagnoli fanno tante cose, mentre gli inglesi sorseggiano tè, anzi tea. Lipton, of course. Perché sir Thomas Lipton è in Italia per ricevere l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine delle Corona d’Italia da sua maestà in persona quando si imbatte negli entusiasti redattori, poco più che ventenni, della Stampa Sportiva, il settimanale supplemento del quotidiano torinese. Scrivono di atletica leggera, ippica e scherma ed ora – siamo nel 1908 – di mezzi meccanici a due o quattro ruote. E poi buon ultimo c’è il football che è una scommessa, ma che si può vincere come dimostrato dal torneo pasquale con gli svizzeri del Servette. Gran successo di pubblico, cappelli in aria ed allegria.
Il magnate inglese è uomo d’affari e di entusiasmo, una cosa trascina l’altra ed accetta di finanziare una nuova, seconda edizione del torneo, più grande, più internazionale, “mondiale” si dirà, di sicuro qualcosa di più largo del “football world championship” diviso tra scozzesi ed inglesi disputato dal 1876 al 1904. Ci mette la faccia: si chiamerà “Lipton Trophy“, 2.000 sterline e soprattutto una parola buona con la Football Association per assicurarsi la partecipazione di una squadra inglese, garanzia indispensabile per poter dare all’evento portata “planetaria“. 

Torino 1909
(Torino 1909. La squadra italiana)

Il primo torneo 

Ci sono dentro svizzeri, tedeschi ed ora i maestri inglesi oltre a noi, increduli che il sogno di un “world challenge” si possa realizzare e proprio a Torino. Sir Lipton cerca il meglio tra Londra e Manchester, sono piazze importanti che hanno già viaggiato per tornei oltremanica a suon di vittorie roboanti tanta è la differenza con il resto d’Europa. Il Woolwich Arsenal è la prima scelta, la squadra fondata quasi trenta anni prima dagli operai dell’arsenale reale a Woolwich, sud est di Londra. Sono professionisti dal 1891, ma rinunciano alla proposta o forse è la FA che non vuole esporsi con un club di prima fascia. Sono fatti così, riottosi e spocchiosi, dovrà arrivare l’anno domini 1950 per abbassare la cresta a tempo indeterminato. O forse la FA non c’entra ed è andata veramente come la romanza il film. Un disguido, l’invito era in effetti per il Woolwich Arsenal, ma arriva ai minatori del West Auckland: stesse iniziali, dilettanti che strabuzzano gli occhi, entusiasti accettano la sfida, una volta certi di trovare sigari e della buona birra anche in terre lontane. 

Ita-lia, Ita-lia!!

Gli inglesi affrontano 48 ore di viaggio per arrivare a Torino a ridosso della prima partita con i tedeschi dello Stoccarda, è 2-0 per i minatori sotto gli sguardi ammirati/preoccupati del pubblico che spera nella finale contro l’Italia. E già, gli organizzatori hanno pompato l’evento per bene: la nazionale italiana ancora non si è riuscita a formare e questa è un’occasione per sfidare avversari tosti con una selezione che ci rappresenti adeguatamente. Maglia bianca e fascia tricolore attorno alla vita, il nostro undici è di ragazzi del Torino granata (otto) e del Piemonte calcio (tre), una squadra sorta da pochi mesi ed iscritta al campionato di seconda categoria. Per la prima volta da bordo campo si sente scandire “Ita-lia Ita-lia” per una partita di football. Il goal di Berardo illude, gli svizzeri del Winterthur sono tosti e la ribaltano. La finale del 12 aprile 1909 quindi la vediamo da spettatori, studenti ed operai che cercano di carpire qualche segreto. Il portiere che respinge con i pugni chiusi, gli attaccanti che si buttano verso la palla che arriva dal corner, i difensori che palla o gamba. È 2-0 per gli inglesi, – si dirà “all’inglese”, maglia nera e vistosa V gialla sul petto, due reti nei primi otto minuti con i due Jones, Bob e Jock chissà se fratelli.

Torino 1909
(Torino 1909. Italia in campo)

Il secondo torneo 

Bob c’è ancora due anni dopo per la seconda edizione, suggello al successo della manifestazione, vince ancora la squadra inglese, stavolta la Juventus vince il derby (2-0) e si merita la finale dove la differenza con Albione è ancora troppo marcata: 6-1, quattro reti nei primi 14′ e l’imponente coppa (“Lipton Trophy“) si imbarca per Dover per non tornare più indietro. Sir Lipton non ne ha il ritorno commerciale previsto, non ne se ne fa un cruccio, la Torino di inizio secolo è tiepida all’idea di servire con il latte accompagnandolo con scones e clotted cream (o Victoria cake, muffin, sandwiches), roba da salotti e qui c’è da lavorare in fabbrica e, chi può, da togliere il fango dalle scarpe da football prima che fa buio. 

L’eredità 

La storia del trofeo, parliamo di club, passa agli archivi come la prima Coppa del Mondo. Si è giocata in Italia, l’hanno vinta dei minatori inglesi che non ci dovevano essere, hanno strapazzato la concorrenza dimostrando di essere una spanna superiore agli altri. Il football comincia a scorrere nelle nostre vene, perderà troppi ragazzi nella grande guerra, troverà nuova e definitiva linfa dalla Rimet, arriverà lassù dove non era possibile immaginare con i ragazzi di Pozzo e l’Azteca, per ritrovarsi quel giorno a Vigo dove il nostro calcio scrisse forse l’incipit della più bella favola mai scritta. 

  

 

 

Roberto Amorosino romano di nascita, vive a Washington DC. Ha lavorato presso organismi internazionali nell'area risorse umane. Giornalista freelance, ha collaborato con Il Corriere dello Sport, varie federazioni sportive nazionali e pubblicazioni on line e non. Costantemente alla ricerca di storie di Italia ed italiani, soprattutto se conosciuti poco e male. "Venti di calcio" è la sua opera prima.

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