È una domenica quando a Los Angeles si aggiunge un altro capitolo alla grande storia delle Olimpiadi moderne; per la prima volta si corre una maratona al femminile. È stato un percorso lungo e accidentato quello che, di Olimpiade in Olimpiade, ha visto allungarsi sempre di più l’elenco delle categorie in cui le donne potevano gareggiare.
Il 12 agosto 1984 sono cinquanta le atlete provenienti da ventotto nazioni che affrontano quei 42,195 chilometri e segnano una nuova tappa dell’emancipazione olimpica femminile. Tra loro c’è anche Gabriela Andersen-Schiess.
Il gruppo affronta le lunghe strade californiane, battute da un caldo così intenso che sembra quasi sul punto di voler sciogliere l’asfalto; la folla però non si lascia spaventare e lungo tutto il percorso sono migliaia le persone che spingono per poter vedere le donne che stanno riscrivendo la storia dei giochi.
Scrivere la storia
Sono passate due ore e 17 minuti quando le sorti della gara sembrano già decise: l’americana Joan Benoit, già detentrice del record mondiale per la maratona, è prima e mantiene una buona distanza dal resto del gruppo. Quando entra nello stadio per percorrere l’ultimo giro di pista, tutta la stanchezza della gara viene messa da parte, si dimentica del caldo asfissiante per concentrarsi sulla magnifica sensazione che quegli ultimi 400 metri le lasciano dentro. Il suo ingresso è di una leggenda in the making: lunghe falcate, urla dagli spalti e una carica finale dovuta unicamente all’adrenalina che continua a spingerla in avanti. Dopo 2 ore, 24 minuti e 52 secondi Joan diventa la prima donna a vincere una maratona olimpica, con un distacco non indifferente sulle sue avversarie.
Una storia diversa
Questa però non è la storia di Joan per quanto brava e indimenticabile possa essere stata durante la competizione. In questo caso bisogna andare un po’ indietro, lasciare che Joan entri nello stadio e attendere quel puntino rosso che pian piano si fa più grande e definito.
È un’altra maratoneta, svizzera ed ha il numero 323 sul petto. È Gabriela Andersen-Schiess e nonostante tutto è lei la vera eroina del giorno.
Nata a Zurigo nel 1945 e trasferitasi da giovane a Sun Valley in Idaho insieme al marito per lavorare come istruttrice di sci, Gabriela dimostra per ben presto di avere un vero e proprio talento per la corsa. Per lei è più di un semplice passatempo: allenarsi è lo strumento adatto per avvertire il proprio corpo teso al massimo, modellato e affinato per raggiungere traguardi per una donna che ha fatto della passione per lo sport il proprio lavoro.
Quando corre non deve più prestare attenzione a ciò che la circonda quanto piuttosto ad affinare il rapporto che ha con se stessa, trovando solo nelle lunghe corse mattutine il giusto stato d’animo per affrontare il resto della giornata.
Ancora in gara
È questo lo spirito con cui nel 1983 partecipa alla Maratona Internazionale della California, riuscendo così anche a ottenere un invito, nell’ottobre dello stesso anno, alla seconda edizione della Twin Cities Marathon, conosciuta come la “maratona urbana più della d’America”. Partendo da Minneapolis per arrivare a Saint Paul, il percorso offre squarci paesaggistici che la riportano alla sua infanzia passata in Svizzera: laghi scintillanti, grandi foreste e cascate le fanno compagnia fino all’arrivo, dove taglia il traguardo per prima, con un tempo di 2 ore 36 minuti e 22 secondi.
Lì, per la prima volta, Gabriela assapora davvero il significato della vittoria mentre, ancora con gambe doloranti, sale sul podio per ricevere il trofeo. È quasi per caso che alle sue orecchie giunge una parola: “Olimpiadi”, sussurrata, quasi incredibile nel suo essere proferita con così tanta casualità.
Il sogno olimpico
Eppure è proprio lì che la sua impresa dell’83 la conduce: Olimpiadi di Los Angeles del 1984, prima edizione femminile della maratona.
Lo stadio è gremito, il gruppo fermo ai blocchi di partenza è ansioso di partire e il sole è alto nel cielo; Gabriela non ha mai smesso di guardarsi intorno incredula, godendosi l’ondeggiare ritmico del gruppo di atlete ai blocchi di partenza, quasi come se si trattasse di un unico grande organismo.
Lo sparo iniziale sembra riscuoterle, intorpidite da un caldo afoso che non da tregua fin dall’inizio dei giochi, spingendole a uscire velocemente dallo stadio, giù lungo le interminabili strade di Los Angeles. Bastano solo quattordici minuti a Joan Benoit per distaccarsi dal resto del branco, abbastanza vicina per rimanere sempre a portata di sguardo ma così distante da essere irraggiungibile. “Rimani dietro la scia di quella davanti a te” era solito dire a Gabriela il suo allenatore; in questo caso non è sicura possa servire a molto.
Siamo negli anni ’80 e le regole per lo svolgimento della maratona sono severe: solo cinque stazioni per l’acqua e nessuna possibilità di fermarsi per altri break durante la gara.
Sentire la fatica
È passata più di un’ora quando Gabriela si rende conto di quanto velocemente stia bruciando tutte le sue risorse: tenta di rallentare il respiro ma l’umido le prosciuga la bocca, cerca di rinfrescarsi con un po’ d’acqua ma ormai è talmente sudata che poche gocce sono inutili.
Con la mente cerca di tornare indietro all’ultima maratona, a quanto il sole e le foreste l’avessero spinta a proseguire ma qui tutto quello che la circonda è una giungla d’asfalto che sembra quasi sciogliersi sotto le sue scarpe. Sente che i suoi boschi l’hanno abbandonata, lasciata in un inferno di cavi elettrici e urla talmente forti che la confondono al punto da farle mancare l’ultima stazione per l’acqua. La testa ben presto inizia a girarle e la determinazione che tanto l’aveva aiutata all’inizio della gara ora si è trasformata in adrenalina che sembra girare quasi a vuoto. Le gambe le fanno male, le braccia si sono irrigidite lungo i fianchi; questa non è più una gara, è un vero e proprio calvario. Nonostante tutto Gabriela va avanti, avanti e avanti ancora.
Altri dieci metri e ti fermi
Un boato poco distante annuncia l’arrivo di Joan dentro lo stadio. La storia viene scritta e Gabriela, con tutta la sua stanchezza, non può non dispiacersi di essere tagliata fuori da un traguardo simile. Non è tanto la voglia di essere al posto di Joan (per quanto bello possa essere) quanto il desiderio di potersi poi guardare indietro e dire “anche io ero lì, nello stadio”. Invece è ancora fuori, con il cervello che continua a chiedersi se sia il caso di fermarsi.
Si sente chiusa fuori da quello stesso corpo che tanto aveva impiegato a plasmare, indolenzita più dalla sensazione di sconfitta che dalla stanchezza effettiva. Tutto quello che riesce a pensare è: altri dieci metri e ti fermi, altri dieci metri e ti fermi.
Accade l’impossibile
Gabriela quasi non si accorge di star effettivamente varcando l’ingresso dello stadio, rientra in sé giusto in tempo per incrociare il proprio sguardo nel grande tabellone: ha il volto stravolto, zoppica dalla gamba destra e si trascina il braccio sinistro come se non le appartenesse. Eppure non si ferma. Vede avvicinarsi delle chiazze sfocate che poco a poco assumono la forma di paramedici che seguono il suo percorso a zigzag lungo la pista.
È talmente stanca che i pensieri si muovono a compartimenti stagni, uno dopo l’altro in una sequenza che sembra quasi un insieme numerico d’istruzioni lungo tutti i rimanenti 400 metri.
Istruzioni per l’uso
1) Continua a correre, gamba destra poi gamba sinistra;
2) Rimani dentro la pista;
3) Se vieni toccata dal personale medico verrai squalificata, cerca di evitarli;
4) Respira profondamente;
5) Continua a correre;
6) Continua a correre;
7) Continua a correre;
È così che l’intero stadio rimane con il fiato sospeso mentre il numero 323 impiega 4 minuti e 33 secondi per chiudere l’ultimo anello di corsa, barcollando e trascinandosi in avanti.
Il mondo rimane immobile per Gabriela Andersen-Schiess che non vuole far altro che arrivare al traguardo mentre la stessa Joan Benoit la incita da bordo pista. Non c’è altro in pista se non le sue gambe e la lingua di tartan che poco a poco diminuisce, nonostante continui a inciampare e cerchi inutilmente di asciugarsi le lacrime che si mescolano al sudore.
Poi, improvvisamente, Gabriela Andersen-Schiess taglia il traguardo
Arriva 37esima su 44 atlete, con un tempo di due ore, 48 minuti e 42 secondi. È solo allora che l’atleta si permette di farsi sopraffare dalla debolezza, lasciando che i medici e suo marito le si avvicinino.
Bastano un paio d’ore in infermeria per farla tornare come nuova e per scoprire come l’interesse dei giornalisti sia rivolto principalmente verso di lei, l’atleta che si è dimostrata così umana nel suo voler concludere la gara ad ogni costo.
Diversi sono anche coloro che invece nella sua impresa vedono una performance estrema, una fatica insensata che ha dipinto la prima maratona femminile come un evento tremendamente antiestetico.
Essere sé stessi
Eppure Gabriela non è interessata a trovare troppe dietrologie alla sua performance: la sua non era una lotta per la medaglia, quanto una sfida contro sé stessa e quella voce stridula che tanto aveva cercato di convincerla a fermarsi.
Gabriela esce vincitrice da questa vicenda non solo per il suo spirito sportivo, quanto per il desiderio di arrivare al traguardo secondo le proprie regole, inseguendo il desiderio di chiudere la sua esperienza sportiva a modo proprio. Forse durante quei lunghi cinque minuti, Gabriela Andersen-Schiess non è stata solo una maratoneta ma anche un’artista, pronta a disegnare una realtà fedele solo ai propri desideri.