Fermatevi. Prima di leggere guardate la foto. Anzi, perdetevi nella foto.
Osservatene i particolari. Il disegno dei muscoli, la vena che sembra volersi strappare dal collo, le mani che non si sa cosa possono essere, la bocca serrata, lo sguardo fisso chissà dove, i capelli di un mondo fa.
Questa fotografia ha la forza di un destino.
Io ho fatto in tempo ad andare in una scuola con una palestra vecchio stile; quadro svedese, anelli, cavallo. Ci giravamo intorno, qualche volta provavamo ad arrampicarci, ad appenderci, a saltare.
Non sapevamo che quelli erano gli attrezzi di un dio.
Oggi, davanti alla fotografia di Alberto Braglia che teso sul cavallo impugna le maniglie sfidando gravità e dinamica, capisco che il dio era lui. Lui, il ginnasta perfetto.
È una storia triste, non giriamoci intorno
Alberto Braglia è un figlio povero di Modena. Nasce nel 1883, la Modena dei motori è ancora in mente dei e lui è solo uno dei sei figli di un muratore. La vita lo graffia da subito, ma il destino è nelle sue mani. Dio, quanto è vero che sarà nelle sue mani.
Pochi studi, quanto basta per stentare a leggere e scrivere e poi a bottega sin da bambino, questo poteva fare il figlio del muratore.
La casa di famiglia è fuori città, casa di campagna, aria aperta e fienile. Il carattere ognuno ha il suo; spinto forse anche da una leggera balbuzie, quello di Alberto lo faceva stare spesso per conto proprio. Il fienile per lui diventa un mondo. Ha una vitalità estrema, irruenta. Salta, monta, smonta, i sacchi di grano chissà cosa diventano nella sua fantasia. Forse cavalli da domare. Cavalli a monta western, pelo nudo, mani aggrappate alla criniera. Mani che prendono e non mollano. Mani che lo porteranno in cima al mondo. Proprio lì, da dove cadere fa più male.
La ginnastica patriottica
Siamo a fine ‘800. Le società ginniche sono alveo del patriottismo del tempo, quello di un Risorgimento finito da poco ma ancora irredento, quello del Cuore di De Amicis che oggi fa sorridere se non storcere la bocca, ma che al tempo emozionava grandi e piccoli.
Fondata nel 1870 da quattro ragazzi che, come dice un giornale del tempo, “…già da alcuni anni dedicavano i loro ozii alla ginnastica” la Panaro di Modena è storia grande di sport, identità civile, fiume, certo, ma al tempo anche nome che echeggiava ancora la battaglia austro-napoletana del 1815.
A Modena la ginnastica è identità forte.
Nel 1874 il Comune concede alla Panaro l’uso dei locali della Società Operaia di Mutuo Soccorso e qui avrà sede per 124 anni. Il 27 maggio 1888, con l’organizzazione della Panaro, si svolge a Modena la prima edizione del Concorso Nazionale di Ginnastica. Vittorio Emanuele, al tempo principe di Napoli, accetta la presidenza onoraria della società e la manterrà anche quando, nel 1900, diventerà re. Per Alberto Braglia non sarà un particolare da poco, ma lo vedremo più avanti.
La Società di Ginnastica e Scherma del Panaro
Quando Alberto Braglia arriva alla Panaro è solo un ragazzo, ma il fienile l’ha fatto agile e forte. Il maestro Carlo Frascaroli capisce, vede che il ragazzo vuole mordere la vita, lo fa crescere, gli dà fiducia, lo allena. Alberto diventa atleta di punta della società e, insieme, arrivano i primi successi; lui, individualmente, e la società come squadra, in questi primi anni del ‘900 vincono praticamente tutto il possibile.
Sono appena rinate, hanno un’organizzazione ancora pionieristica, alle donne sono sostanzialmente precluse, ma potere evocativo del nome, le Olimpiadi hanno già un grande fascino e diventano l’obiettivo di tutti gli atleti. Anche di Alberto Braglia che saprà pur leggere e scrivere poco e male, ma lì, tra gli attrezzi, tra cavallo e anelli, è impareggiabile.
Modena – Atene. Andata e ritorno
Nel decennale della prima edizione, il Comitato Olimpico organizza ad Atene una sorta di Olimpiade celebrativa. Nutrita la partecipazione, ma nessuno spazio nell’albo ufficiale, i Giochi intermedi del 1906 rimarranno un episodio a sé stante. Alberto va, partecipa alle quattro gare di ginnastica artistica in programma. Le cronache sono un po’ confuse, non vince ma si piazza secondo in un paio di specialità cosa che, per un ragazzo di 23 anni non è affatto male. Fatto sta che al rientro a Modena gli fanno festa grande e non solo il popolo. Anche il re. Lo abbiamo detto. La ginnastica è vicenda patriottica e il re è pur sempre il presidente onorario della Panaro. Il re vuole ricompensare il suo merito, lo convoca a Roma e quando gli dà licenza di chiedere quello che più desidera, lui, Alberto, il figlio del muratore che ha mani forti e conosce fame e fatica, anticipa i tempi e gli chiede quello che diventerà a lungo il sogno degli italiani: il posto fisso. Alberto Braglia chiede al re di essere assunto alla Manifattura Tabacchi di Modena, peraltro vicina alla sede della Panaro e quindi comoda per allenarsi.
Londra e dopo Londra
La strada per le Olimpiadi del 1908 passa quindi per un posto fisso, un minimo di tranquillità economica e tanto allenamento: ogni giorno, appena smesso di lavorare, Alberto va di corsa alla Panaro.
Londra, per lui, significa arrivare primo in tutte e cinque le categorie – anelli, cavallo, sbarra, fune, parallele – dell’allora concorso generale individuale e conquistare l’oro olimpico.
È uno dei primi ori olimpici italiani; dopo i tre a Parigi nel 1900 ci sono i due di Londra, il suo e quello del lottatore Enrico Porro. Storia a parte quella di Dorando Pietri.
L’oro lo fa diventare famoso. Troppo per un impiego fisso. La Manifattura Tabacchi lo licenzia. Strano che il re si sia voltato dall’altra parte, ma in fondo non sarà l’ultima volta del suo Regno.
Non basta perdere il lavoro, però. La vita che lo aveva graffiato da subito, ora lo morde.
Nel 1909 vede morire il figlio. Ha solo quattro anni e questo non rientra nell’ordine naturale delle cose. Alberto è scosso. Profondamente. L’anima sembra sfuggirgli di mano, proprio da quelle che mani capaci di stringere così tanto da farlo diventare famoso. Mani che adesso guarda solo quando riesce a staccare gli occhi dal soffitto o da una parete.
Arriva il circo
Una volta era festa grande quando la carovana del circo si fermava in paesi e città. Un mondo colorato, festoso, rumoroso di tamburi, pernacchie, ruggiti e barriti. Il circo, un giorno, bussa alla porta di Alberto Braglia e gli dà una seconda possibilità. I Panciroli gli offrono un ingaggio come acrobata, Alberto accetta, deve guadagnarsi da vivere. Soprattutto deve riprendere a vivere.
La vita, però, lo morde ancora, si accanisce. Durante un’esibizione ha una caduta rovinosa e si rompe svariate ossa. Non paga di questo, la Federazione di Ginnastica lo radia. Intollerabile che un campione olimpico debba sfamarsi andando a fare il pagliaccio in giro. Così dicono.
Stoccolma e tanto altro
Intanto, però, si avvicinano le Olimpiadi di Stoccolma del 1912.
Il re si sveglia dal letargo, dopo un po’ intercede, o magari ordina. Alberto è reintegrato. A Stoccolma è l’alfiere, porta la bandiera italiana e la farà salire due volte sul pennone più alto. Gli ori sono per lui e per la squadra di ginnastica
Tutto sembra poter ricominciare.
In Italia Alberto è un divo, ma il mondo non è ancora pronto per dargli una vita normale.
Fanteria. Bum, slatapang, bam bang. Igiene o meno, la guerra chiede dazio. Carso, trincea, fango, morte in faccia. Alberto si salva, non è con il milione di noti e ignoti che non tornano a casa. Si salva anche dalla spagnola, che ne ha ammazzati anche di più della guerra. Non so se sia andata così, mi piace però immaginare il fante Braglia inginocchiato a bordo binario a Ferrara o a Bologna quando, nel 1921, passa il treno che porta il Milite Ignoto a Roma.
Gli anni ‘20
Alberto Braglia lascia la ginnastica attiva e si dedica allo spettacolo. Mette in scena Fortunello e Cirillino di Sergio Tofano – il grandissimo e oggi per lo più dimenticato Sto -, fa tournée di successo in Italia e all’estero. Sulla collina di Los Angeles da poco campeggia la scritta Hollywood e la sua fama è tanta che gli propongono di essere lui il primo Tarzan cinematografico. Chi meglio di lui per volteggiare con le liane e dare vita e volto alla creatura di Edgar Rice Burroughs, il bambino della giungla allevato dalle scimmie ? Alberto ha il cuore altrove e forse anche la testa. Rifiuta e ci penserà Johnny Weismuller.
Hollywood, il quarto oro e il destino che ritorna
Il 1929 non perdona. La crisi fa tabula rasa negli Stati Uniti, ma anche da noi non scherza. Alberto ne rimane travolto. Investimenti sbagliati, sfortuna o chissà che altro, perde quasi tutto quello che ha.
In vista delle Olimpiadi di Los Angeles del 1932, la Federazione lo chiama ad allenare la nazionale di ginnastica e lui vive di questo.
Alberto sa cosa fare e i suoi ragazzi conquistano l’oro. Per loro il primo, per lui il quarto.
Nel 1934 ci sono i mondiali a Bucarest e lì le cose non vanno bene. Gente dalla memoria corta lo accusa di incapacità.
Alberto Braglia, figlio di muratore che si allenava con i sacchi di grano, mani che sanno stringere la vita, uomo d’oro delle Olimpiadi, ha carattere da vendere. Anche orgoglio. Esce dalla porta e se ne va.
Si rimette a lavorare fino a quando la guerra, un’altra, la Seconda del mondo e della sua vita, apre una voragine.
Non so che vita abbia fatto in quegli anni. Immagino però una vita di stenti e di fortuna che gli ha consentito di sopravvivere, ma non di vivere.
Sotto i portici
È una domenica del 1947. Alberto è lì. Non sta facendo lo struscio in una Modena che si rimette in piedi. Lui non è in piedi. È seduto, è a terra. Mendica. A mani aperte. Sono mani con nodi e nervi e segni. Quelle mani, quelle mani.
A Modena nessuno sapeva più nulla di lui eppure qualcuno doveva pur conoscerlo e riconoscerlo. Lo farà solo un giornalista della Gazzetta dello Sport, Mario Morselli. Si crea il caso del campione ritrovato e completamente in miseria.
Il Comune gli riconosce un sussidio, il Coni una piccola pensione.
La Panaro non dimentica, lo assume, gli dà una casa, restituisce dignità a un uomo che la vita ha provato nel fisico e non solo. In palestra Alberto torna a fare di tutto. Torna a fare il possibile.
Finalmente libero
Il 5 febbraio del 1954 un’emorragia cerebrale lo porta via.
Al suo funerale ci sono 20.000 persone. È Modena che se lo stringe ancora un po’ a sé.
Lo avevo detto all’inizio. È una storia triste quella di Alberto Braglia, la storia di una vita di sogni e di travaglio. È pero la storia di un uomo che ha fatto di tutto per vivere la vita come voleva.
Un uomo che il destino ha provato a stringerlo con le mani anche quando questo, più forte, gli è sfuggito lasciandogliele vuote.
Dal 1957 lo stadio di Modena porta il suo nome, ma il tempo passa e Braglia per molti oggi è solo il nome di uno stadio. Un nome anonimo. Molti, di lui non sanno più nulla.
La storia triste è anche questa.
In un tempo in cui lo sport sembra volersi riaffacciare nelle scuole troppo a lungo abbandonate, la cultura sportiva dovrebbe essere materia d’insegnamento civico e uomini come Alberto Braglia raccontati e studiati.
Forse non è ancora troppo tardi. La storia, così, sarebbe forse un po’ meno triste.
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Ad Alberto Braglia è dedicato il bel libro “Alberto Braglia. L’atleta del re” di Stefano Ferrari. Un lavoro di ricerca prezioso che mi ha accompagnato nello scrivere questa breve storia