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Umberto Caligaris. Il Caliga

Di cuore Caligaris ne aveva tanto. Forse anche troppo da contenere. Ma lui era anche un gladiatore, come lo ricorda Vittorio Pozzo in un articolo su "La Stampa". E se non hai cuore e anima, non puoi essere un gladiatore.
UMBERTO CALIGARIS

Sarti, Burgnich, Facchetti era una volta Combi, Rosetta, Caligaris.
E quel 19 ottobre di ottantanni fa i tre juventini, due trentottenni e Umberto Caligaris un anno di più, sono in un campo per una partita tra ex bianconeri.
Caliga tanto ex non è, la Juve la allena dalla stagione precedente.
Caliga non dovrebbe giocare, lo sa e glielo dicono, ma la gioia di ritrovare gli amici è troppo forte.
Dura poco, una decina di minuti e si accascia.

Una partita in più.

Una partita in più, come quella inseguita anni prima, che gli avrebbe permesso di arrivare a quota 60 in nazionale.
Una partita in più, da titolare, per essere campione del mondo a pieno titolo e non solo da componente della rosa.
Una partita in più, fra 240 con Juve e Italia, gli poteva dare quel goal mai arrivato.
Crucci suoi, ma che nulla avrebbero aggiunto ad una storia straordinaria di mille palloni strappati all’avversario da quel ragazzo fisico e carisma, capelli lisci e lunghi legati da una fascia bianca. 

Umberto Caligaris
(1927. Umberto Caligaris)

Il ragazzo si farà

All’Oratorio del Valentino è più popolare del catechista e più temuto del parroco. La sua squadra non perde mai e, se succede, è solo perché Umberto gareggia altrove diviso com’è fra calci alla palla, cento metri e lungo.
A 18 anni il diploma da ragioniere ed un torneo ad Alessandria che conferma ai nerostellati della sua città, Casale Monferrato, che il ragazzo è molto di più che una promessa.

Umberto Caligaris

Tecnica di gran lunga superiore alla media, corsa ed acrobazia. 

Esordio in massima divisione e tempo due anni fascia di capitano al braccio.
Per la prima volta nella storia del nostro calcio, un giocatore è oggetto di attenzione di club stranieri, dirigenti del Liverpool trascorrono intere giornate nel Monferrato per capire come portare a termine la trattativa.
Il colpo riesce però alla Juventus e la tifoseria di una delle roccaforti del mitico quadrilatero piemontese (con Novara, Pro Vercelli, Alessandria) la prende tutt’altro che bene.
Manifestazioni di piazza, fantoccio del Caliga bruciato, dirigenti costretti a girare alla larga dai bar di ritrovo.
Morale della favola, dopo 9 anni, 182 partite e diciotto reti, Caligaris percorre i 60 km da Casale a Torino con la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta.

Inizia una sequela di successi senza fine, con la squadra della gioventù nel nome firma il quinquennio d’oro.
Combi, Rosetta, Caligaris…  

Amore azzurro

In mezzo, l’amore per un’altra maglia che sembra disegnata apposta per lui. L’azzurro della nazionale italiana.
La prima volta è al velodromo Sempione di Milano.
Il 15 gennaio 1922 arriva l’Austria, sono trascorsi meno di tre anni dal trattato che ha chiuso la guerra e ridisegnato le mappe.
Biglietti a ruba nonostante il nuovo nemico, l’inflazione, e quindicimila sardine sulle tribune ad applaudire i nostri e, per la sorpresa degli ospiti, anche gli avversari.
Bandiera bianca e rossa e non più giallonera imperiale, maglia bianca e calzoncini neri per l’Austria, la prima delle due compagini a scendere in campo.
Attendono bordate di fischi, piovono applausi, conta solo divertirsi conta solo il bel gioco.
Caligaris si posiziona sulla nostra destra difensiva, preferisce l’altra corsia ma va bene così, si guarda intorno e sorride al sogno che si avvera.
È un turbinio di emozioni senza precedenti. La maglia addosso, affianco il figlio di Dio, Renzo de Vecchi, e come se non bastasse la rogna dei frombolieri austriaci, Koch ed Hansl.
È 3-3 alla fine, senza rammarico nonostante il doppio vantaggio che sembrava margine sicuro con meno di mezz’ora da giocare. 

Umberto Caligaris azzurro
(1934. A destra Umberto Caligaris)

Una storia da record

L’inizio di una storia lunga 59 presenze di cui 16 con la fascia da capitano orgogliosamente al braccio. Record strappato ad Adolfo Baloncieri e consegnato, ben 31 anni dopo la sua morte, a Giacinto Facchetti, il capitano dell’Azteca.

Con la nazionale due Olimpiadi, due volte la Coppa Internazionale e quel mondiale del 1934 andato un po’ di traverso ma bello, italianamente bello. Era scritto. 

Era scritto 59 e non 60, era scritto di non andare mai a segno né con la Juve né con l’Italia fino a sbagliare l’occasione più ghiotta dal dischetto contro la Svizzera.
Era scritto che un aneurisma lo prende e lo porta via per giocare su prati ancora più verdi.  

Un gladiatore

A Vittorio Pozzo, molto più di un allenatore per la nostra generazione più forte, il compito di ricordarlo su “La Stampa”: “Un Gladiatore. Nella disadorna camera dell’Ospedale Militare, Berto ha chiuso gli occhi con la maglia della Juventus indosso, in tenuta completa da giocatore. Un Gladiatore. Addio caro collega, compagno di tante lotte in difesa del nome d’Italia, atleta dal cuore grande e dai mezzi eccezionali. Nessuno di coloro che hanno diviso con te le fatiche dello sport o che alle tue prodezze hanno assistito ti dimenticherà, ne puoi star certo“.

Uno su tutti

Nessuno dimentica, è vero, ma uno su tutti non lo ha fatto.
Il due volte campione del mondo Eraldo Monzeglio.
Caliga di Casale, lui di Vignale Monferrato.
Monzeglio non solo non lo dimentica, ma sceglie di riposare al suo fianco nel camposanto cittadino.
Ma forse riposare non rende bene l’idea.
Forse, da allora, il Caliga e Monzeglio giocano sullo stesso campo e a rientrare negli spogliatoi non ci pensano proprio.

Roberto Amorosino romano di nascita, vive a Washington DC. Ha lavorato presso organismi internazionali nell'area risorse umane. Giornalista freelance, ha collaborato con Il Corriere dello Sport, varie federazioni sportive nazionali e pubblicazioni on line e non. Costantemente alla ricerca di storie di Italia ed italiani, soprattutto se conosciuti poco e male. "Venti di calcio" è la sua opera prima.

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