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Tennis. Obiettivo 50 scambi

0) Cover Claudia Catì

Capalbio, estate 1993.
È caldo. La frangetta salata mi si incolla alla fronte. Una zanzara tenta di fare goal nella mia bocca. La sabbia scotta. Ma niente è più importante di una pallina che vola in aria. Il tempo si ferma. Anche il rumore delle onde che si spezzano sul bagnasciuga sembra affievolirsi. Toc. Il mio racchettone colpisce la palla. In questo momento sono Trini dei Power Rangers, la mia supereroina preferita. Ce la possiamo fare.
Obiettivo 50 scambi.
Mamma Tiziana, di fronte a me, solida pallavolista di serie D, la mia Mila Hazuki dei cartoni giapponesi, conta ad alta voce gli scambi. Avrebbe voglia di farsi un bagno ma non lo dà a vedere. “Ci siamo quasi!” mi sprona. Altri quattro. Tre. Due. Uno. Siiiiii. Urlo facendo la telecronaca dell’incontro e mi tuffo come premio nell’acqua chiara dell’Argentario.

Già perché è proprio là, durante una delle tante estati trascorse alla casa di famiglia dove le giornate sulla spiaggia si infuocavano, che risale il mio primo ricordo con una racchetta in mano.  
Peccato che settembre significasse tornare a Roma e quindi per me era uguale a mettere in standby la mia passione. Non che la ginnastica ritmica non mi divertisse…anzi era bello condividere qualche pomeriggio alla palestra della Contardo Ferrini con le amiche di scuola, tra spaccate e capriole, ma sicuramente non era la mia vera “vocazione” sportiva. 
Così i miei mi iscrissero al mio primo corso di tennis al TC Parioli a 8 anni e da lì non smisi più.
Dopo un anno mi presero all’agonistica e iniziarono molto presto anche le avventure dei tornei.
Quanta ansia prima di giocare, mamma mia! Io poi molto timida e insicura non sempre riuscivo a rendere al meglio. Ma come dimenticarsi della prima coppa da vincitrice di un torneo il giorno del mio decimo compleanno?
Era allo Sporting Club Panda.
Il giorno della finale non c’era una nuvola in cielo. A quanto pare si rivelò essere di buon auspicio. Il mio maestro mi guardava dalle tribune. Quando ho vinto l’ultimo punto, l’ho fissato orgogliosa.
Non che avessi vinto l’Orange Bowl di Miami, ma per me stessa rappresentò una grande vittoria personale. E poi la coppa era bella da morire. Luccicava. Buttai giù tutto d’un fiato un gatorade manco fosse champagne. Nella foto dei miei genitori, oltre la coppa, mostrai la bottiglia come se mi avessero già ingaggiato per la pubblicità!
Altro che supereroi, mi sentivo una bomba!

I miei, seppur non tennisti, mi hanno sempre incoraggiata, accompagnandomi continuamente a tornei e allenamenti. Eppure mai e poi mai dovevano assistere alle mie partite. No, no. Non l’avrei sopportato. Mi bastava un loro sguardo deluso da farmi andare in tilt. Perché in fondo la mia insicurezza si manifestava soprattutto in questo, ossia nella mia incapacità di gestire le alte aspettative che avevo nei confronti di me stessa. Questo ovviamente nella mia testa significava al tempo stesso non deluderli, per quanto non mi avessero mai fatto particolari pressioni. Ed è sempre valso anche per i miei studi: l’esigenza di essere sempre tra i primi della classe, mi ha fatto spesso vivere con la famosa “ansia da prestazione”. Ma forse è un discorso che accomuna molti figli unici.

Lo sport, in particolare quello agonistico, è però la giusta medicina per curare questa paura: hai modo di dare un pugno alle tue debolezze. In principio sei immerso nella nebbia ma col tempo, insieme a perseveranza e determinazione, la luce riesce a filtrare. La tua visuale sarà più limpida. Impari allora che la stessa vita è una partita di tennis. Si potrà vincere o perdere – e questo va anche accettato – l’importante è aver lottato fino all’ultimo.
Indelebile nella mia memoria una partita al TC Garden in cui ero al match point per la mia avversaria.  Ricordo di aver guardato fuori dal campo per un attimo. Qualche spettatore si era già alzato, pronto per andare a complimentarsi con i genitori dell’avversaria.
“Chi vi ha detto che è finita?” urlò una voce nella mia testa.
E così scattò qualcosa in me. Una molla. Tirai fuori quella grinta che fino ad un momento prima era rimasta un po’ in disparte. Così annullai il match point. Punto dopo punto la raggiunsi, ribaltando l’incontro. Lei, sicura di vincere, crollò in lacrime dopo la sconfitta.
Sconfitta. Parola che nessun sportivo vorrebbe mai pronunciare, ma passaggio obbligato per tutti. 

Come quella che ho dovuto subire nel match contro Karin Knapp al Master nazionale della Head a Rapallo. Lei a 12 anni era già fisicamente come ora. Io sembravo la figlia. Per tutto il match non disse una parola. Una macchina da guerra appena atterrata da Marte. Mi “asfaltó”. Capii subito che sarebbe diventata qualcuno. Ed io compresi la vera faccia del professionismo.
Per essere uno sportivo devi avere sempre fame: fame di incontri belli o brutti che siano, ma che comunque formeranno il tuo bagaglio di esperienze. Ovviamente devi allenarti affinché ci siano più incontri belli. E anche per me è stato così.
Quanti sacrifici per conciliare sport e studio! Perché in tutto questo, mantenere un livello alto a scuola insieme a tante ore di allenamento, significava mettere un po’ da parte la “normalità” di una liceale. Ho invidiato in alcuni momenti le mie compagne che uscivano per spettegolare il pomeriggio mentre io sudavo in campo.
Per carità non che mi siano mancate delle amiche fidate o le classiche storielle adolescenziali, ma tutto un po’ di contorno.
Con l’inizio dell’università mi trovai a un bivio, non era più possibile conciliare le due cose. Per raggiungere maggiori risultati dovevi allenarti sempre di più e dall’altra parte c’era giurisprudenza a La Sapienza che non ammetteva troppo svago. Quindi presi una decisione. Fare due cose male non avrebbe portato a nulla. Il tennis è sempre stato parte della mia vita ma con il tempo devi anche riflettere sul tuo futuro.
“Forse la strada della tennista professionista non fa per te al 100%”.

Studiare mi piaceva ma al tempo stesso abbandonare del tutto il mio sport non l’avrei potuto concepire.
Così il circolo dove giocavo, il Canottieri Tevere Remo, mi propose di iniziare a lavorare come maestra per la scuola tennis. E fu la svolta.
Metà giornata di studio e l’altra metà in campo con i bambini. Perché come in tutti i mestieri devi fare la tua gavetta; devi seguire i consigli di altri colleghi con più esperienza oltre che superare il corso per istruttori.
L’insegnamento mi ha portato ad apprezzare ulteriormente questo sport. L’obiettivo in un certo senso cambia: per quanto mi riguarda è diventato ancora più stimolante. Trasmettere agli altri le tue conoscenze, le tue passioni, il tuo modo di superare le difficoltà, mi ha dato una vera carica. Mi ha aiutata a superare la mia timidezza che spesso mi aveva ostacolato da piccola. Per non parlare poi dell’importanza della pazienza nel gestire le situazioni più disparate. Stare a contatto con la gente, nel bene o nel male, mi ha insegnato ad approcciarmi in maniera diversa a seconda della personalità che avessi davanti.
Dopo cinque anni di giurisprudenza mi laureai.
L’idea iniziale era quella di lavorare con papà Augusto nel suo studio legale, mantenendo così la tradizione di famiglia. Ma niente è scontato!
L’idea di rimanere bloccata tutto il giorno tra studio e tribunale mi faceva rabbrividire. Altro bivio. Altra scelta fuori percorso.
Decisi di abbandonare l’opzione più comoda/sicura.
“Cioè, ti sei laureata in giurisprudenza per finire a fare la maestra di tennis?”
“Ti sarebbe bastata la terza media!”
“Dai, lo puoi tenere come hobby! “.
Hai la fortuna di avere un padre con lo studio e decidi di sprecare tutto?!

Quanti commenti di questo tipo ho sentito.
Me ne sono sempre fregata. Magari avrò sbagliato, ma avrei sbagliato comunque a non seguire quello che mi sentivo di fare.
I miei hanno accettato la mia scelta, seppur lontana dal loro immaginario.
Il mio fidanzato Marco, conosciuto al primo anno di giurisprudenza, quello che invece ha saputo fare del suo studio una professione e, anche lui, ex agonista nella pallanuoto, ha appoggiato la mia decisione lavorativa.
Ma le sorprese non finirono.
Un anno dopo la mia laurea iniziò una nuova avventura che, questa volta, non riguardava il campo da tennis.
Nacque mia figlia Martina che ora ha 8 anni. La mia più grande vittoria. La mia instancabile furbetta. In lei mi rivedo molto, per quanto apprezzi il suo approccio più “disteso ” nei confronti delle cose.
La famiglia riesce a riempire la tua vita, arrivando dove le semplici passioni non bastano per completarti.
Io ho avuto la fortuna di trovare una famiglia anche al circolo Asd Amalasunta dove lavoro ormai da 12 anni; i miei colleghi Pasquale e Nicoletta sono un po’ il fratello e la sorella che non ho mai avuto. 
Comunque, ovvio che non è tutto rose e fiori. 

Crescere una bambina con un lavoro che non ti concede molte tutele, non è tutt’ora facile. Ma ho voluto la bicicletta?! E ora mi tocca pedalare senza tante lamentele. Spesso siamo i primi a urlare il nostro disappunto ma senza aver voglia di rimboccarci le maniche. Ed è soprattutto quello che cerco di trasmettere ai miei allievi, oltre che a mia figlia.
Puoi essere benestante con il “sedere parato” quanto ti pare ma se ti adagi sugli allori senza impegnarti al massimo per qualcosa in cui credi, non chiuderai mai il punto.
Potrai anche perdere ma non è quello che conta.
Lotta. Impegnati. Reagisci.
Basta imparare questo per vincere sempre.

 

Claudia Cati, tornei dai dieci ai vent’anni, una laurea in legge mai appesa alla parete ma riposta nel cassetto, quello sì, coach di piccoli e grandi atleti per tutta la vita. Senza impegnarti al massimo per qualcosa in cui credi, non chiuderai mai il punto.

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