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Odore di cloro

0) COVER antonio Mollo

Non ho mai visto esultare mio padre ad una mia partita.

Si metteva seduto in disparte, guardava, scrutava, appoggiava il mento nella mano. A volte scambiava due chiacchiere con uno dei genitori dei miei compagni, con quelli che parlavano meno di lui. Non mi ha mai criticato né esaltato. Tentava di mantenere una certa neutralità.

Je faccio ‘o psichiatra guagliò, conosco le conseguenze dell’emotività”. Ero un adolescente, 15/16 anni e non capivo fino in fondo quella frase. Sebbene mi sforzassi di comprendere, non mi capacitavo di come potesse non lasciarsi coinvolgere da uno sport molto emozionante, soprattutto se visto dal vivo. Uno sport maschio, dove si combatte, si danno e si prendono botte, dove ci si sacrifica anche più del dovuto e davvero faticoso. Tra l’altro giocavo io, suo figlio, sangue del suo sangue. Ed ero uno di quelli -‘o mastino, mi soprannominò il mio allenatore- che in acqua ringhiava, che viveva le partite come una battaglia, che quando scagliava il pallone verso la porta lanciava verso quei pali galleggianti tutto il suo condensato di grinta, passione e voglia di vincere.

Questo era per me la pallanuoto.

Non ho mai visto esultare mio padre ad una mia partita.

Tranne una.

Dicembre 2006, categoria allievi. All’epoca era prevista una formula per cui si giocava anche il campionato nazionale invernale che era una sorta di anticipazione del campionato che terminava in estate o a settembre.

Si giocava a Napoli, alla Scandone, uno dei templi della pallanuoto nazionale e internazionale.

Capirai: avevo il sangue agli occhi. Ero molto carico, ma non fino al punto da aver disperso le energie necessarie per affrontare al meglio le partite. Cosa che capitava.

Ero concentrato, determinato. Mi allenavo con la diligenza di un tuffatore cinese e infatti ero in un periodo di splendida forma. Ero tra i migliori della classe ’89-’90, nonostante fossi uno dei meno dotati fisicamente. Cioè, per la “vita normale” ero abbastanza dotato: 16 anni, 1,72 cm, 64 Kg, fisico atletico, spaccato direi. Ma quasi tutti i miei compagni di squadra erano anche il doppio di me, in altezza e in peso.

Tentavo di colmare questo gap con la grinta, la “garra” direbbero i calciofili amanti del campionato spagnolo e con la cura nell’allenare alcuni particolari tecnici come la “palomba”, il tiro dalla parabola arcuata che, se eseguito a dovere, è imprendibile. Quando vedevo la palla insaccarsi alle spalle del portiere “seduto”, immobile, provavo una sensazione di goduria e onnipotenza infinita. Piccole gioie di un giovane sportivo.

Inizia il concentramento napoletano e dò subito il meglio di me. Girone abbastanza abbordabile per noi.

Partita con il Padova, sarà stato il secondo o il terzo tempo, vincevamo già con uno scarto di 5-6 gol. Mi trovavo in posizione “4” (il cosiddetto lato buono, lato sinistro di chi attacca), anche se di solito –sprovvisti noi di mancini- giocavo sul lato cattivo. Mi arriva la palla, il Padova faceva pressing per tentare di recuperare il recuperabile. Il mio avversario mi fa fallo e nuota all’indietro andando a raddoppiare la marcatura sul nostro centroboa, lasciandomi un po’ di spazio. Scambio velocemente la palla con il compagno più vicino, noto che mancano 5 secondi alla fine dei 35 (all’epoca, oggi sono 30) di possesso concessi ad ogni squadra e mi viene in mente di provare un gesto clamoroso, in una frazione di secondo. Ero a 9 metri dalla porta avversaria (lontano per la pallanuoto): palomba a giro. A giro significa che oltre ad arcuare la parabola, effettuai una torsione con le dita della mano destra verso l’interno in modo tale che il pallone ruotasse su sé stesso prendendo un effetto particolare. Per intenderci: nel calcio sarebbe il tiro alla Del Piero da sinistra a destra. Palla nel sette e portiere che si inarca invano. L’euforia si impossessa del mio cervello ed esulto mettendo la mano destra accanto all’orecchio guardando il pubblico come a dire: “ehi non vi sento, urlate urlate che ho fatto un gol pazzesco”.

Tooooony Tooony vieni, vieni esci”. Mi giro e vedo che Mauro, l’allenatore, indica di andarmi a sedere in panchina, io faccio l’espressione del finto stupito e con gli occhi gli chiedo il perché. Ma in realtà lo sapevo benissimo.

Giocavamo per il Circolo Nautico Posillipo, elité della pallanuoto nazionale, prestigioso club di cazzuti partenopei, un po’ scugnizzi e un po’ nobili, che ha fatto la storia di questo sport in termini di trofei vinti e per mentalità. Già, quella cosa che a 15 anni i dirigenti ci dicevano “voi dovete avere la mentalità vincente” e noi annuivamo come soldatini senza capire un cazzo. Poi l’avremmo capito, più grandi.

E proprio per questo dovevamo mantenere sempre e comunque un certo stile, una certa aplombe.

Non fare il coglione, risparmiati questi gesti, mo vatti a sedere un po’ così la smetti”. Faccio finta di assecondarlo dicendo “Sì, sì Mauro, certo, hai ragione”, ma appena mi giro verso la panchina faccio un gesto con la mano come a dire “madonna e che ho combinato” e sorrido.

Ua Tony, ma che r’è chella palomba, ‘a PlayStation”, Federico mi strappa un ulteriore sorriso, come se ce ne fosse ancora bisogno.

Ma nemmeno in quest’occasione notai mio padre esultare.

Non ho mai visto esultare mio padre ad una mia partita.

Tranne con il Savona. I gironi da quattro erano impostati in questo modo: le prime due di un girone si sfidavano con le prime due dell’altro in semifinali e finale, prima contro seconda e viceversa.

Era l’ultima partita del girone, eravamo primi con un punto di vantaggio sul Savona. Matematicamente in semifinale, ma se fossimo arrivati secondi avremmo affrontato la prima dell’altro girone: la Vis Nova Roma, acerrima nemica e squadra fortissima che avremmo chiaramente voluto incontrare giocandocela in finale, per il titolo, davanti al nostro pubblico. Per cui avevamo due risultati su tre. Chi ha fatto sport sa benissimo che avere a disposizione come risultato favorevole anche una non vittoria è un’arma a doppio taglio: sei inconsciamente più rilassato e la puoi pagare cara.

Era un venerdì mattina, durante le feste di Natale.

Fuori il freddo era abbastanza secco, ma c’era il sole. I raggi che trapassavano le grosse vetrate rendevano l’ambiente della Scandone ancora più caldo.

C’erano circa cinquecento persone, tante per una partita di un campionato giovanile. Partiamo malissimo. Botte da orbi, d’altronde la rivalità con le squadre liguri, con le quali ci siamo sempre contesi il primato in Italia, si concretizzava in nervosismi, partite ostiche e falli pesanti.

Dal risultato sembrava una partita di calcio. Il secondo tempo finisce 2 a 0 per loro.

Per la pausa di metà gara andiamo a bordo vasca e Mauro ci fulmina con lo sguardo. 10 secondi di silenzio. “Ma che cazzo state facendo! Siete impazziti! Ci vogliamo far mettere le palle in testa dai liguri?! A Casa nostra?! Adesso tornate in acqua, facciamo finta che la partita inizia adesso e giocate, cosa che fino ad ora non avete fatto”.

Inizia il terzo tempo e siamo punto e da capo. Siamo goffi, pesanti, tesi e poco lucidi. Non riusciamo a far il nostro gioco veloce, fatto di ripartenze e movimenti rapidi. L’ansia ci assale, ma non so come riusciamo rocambolescamente a chiudere il terzo tempo in parità, 2 a 2, giocando pure peggio di prima.


Torniamo sotto al bordo vasca. “Adesso veramente basta, se continuate così vi faccio uscire dall’acqua e vi ritiro dalla partita, siete degli idioti! Senza palle”.

Alfredo accenna una risposta e si becca una ciabattata in faccia dall’allenatore. Cosa che era già capitata e che ricapiterà. Mai nessun genitore ha mai sentito l’esigenza di fare eventuali rimostranze a Mauro.

Mentre stiamo tornando a centro-vasca, mi scatta un’incazzatura incredibile, scorgo lo sguardo di Paride, il capitano, afflitto ma determinato a dar battaglia fino all’ultimo ed urlo “Ohhh, ma che spaccimma, je ‘e palle ‘mmocc ‘a sti quatt’ sciemi, nun ‘mme faccio mettere”. “Dai cazzo, ha ragione Toni, dai! Fuori i coglioni, facciamo vedere chi siamo”, tuona il capitano.

Entrambi gli incitamenti non sortiscono l’effetto sperato e svaniscono sotto il pelo dell’acqua insieme alla calottina di Dario sfilatasi dalla testa mentre era intento a prendersi a mazzate con il centroboa savonese. Lotta greco-romana in acqua.

In pochi minuti ci troviamo sul 4 a 2 per loro.

Mi giro verso la panchina e vedo che Mauro getta una bottiglietta d’acqua mezza piena contro la panchina.

È la fine pensano tutti, ma non io.

Manca 1 minuto e 35 secondi alla fine della partita. Attacchiamo. Mi ri-trovo, di nuovo stranamente, in posizione 4, sul lato buono. Mi fanno la “zona M” e sulfureo mi ribolle lo stomaco.

La “zona M” è un tipo di difesa che si predilige quando si considera il centroboa della squadra avversaria molto forte e quindi gli si raddoppia la marcatura. A tale scopo, i difensori che marcano i tiratori avversari, considerati meno degni di attenzioni rispetto al centroboa, arretrano per fare in modo che la palla al centroboa sia inservibile. Si chiama così perché l’assetto che i giocatori che difendono assumono in acqua è a forma di M.

Praticamente mi stavano comunicando che potevano evitare di marcarmi a uomo perché non sapevo tirare un granché bene. Io? “Mo ve faccio verè, mo sfonn’ ‘a porta”. Mi arriva la palla, tiro con tutte le mie forze, ma il difensore avversario mi stoppa il tiro con il braccio deviando la traiettoria.

È finita, penso.

Ma non si sa come, Massimiliano riesce a rubare palla al difensore ligure che gli rovina addosso tentando di recuperarla, da sott’acqua fa giusto in tempo a passarmela con l’unica parte che si vedeva del suo corpo, la mano.

Sono a 7 metri, mancano 4 secondi alla fine dei 35. Se non faccio gol adesso abbiamo perso. Finto, finto ancora, sposto tutto il corpo sul lato corto rispetto al portiere in modo da confonderlo e farlo preparare ad un tiro sul primo palo e all’ultimo istante piego il polso per tirare sul palo lungo: palo-GOL.

Palo gol. Cazzo: palo-GOL!

Penso di non aver mai perso così il controllo in tutta la mia vita. Davvero. Penso di non essermi alzato mai così tanto dall’acqua come per esultare dopo quella segnatura. Sono furente. Urlo come un pazzo e con il costume che supera il pelo dell’acqua mi giro verso gli spalti.

La scena che vedo è tatuata ancor oggi nei miei occhi e, ogni volta che ci penso, la rivedo come se stesse accadendo hic et nunc: mio padre mantenuto da due genitori per esultare, mi fissa negli occhi, urla con me e mi fa il gesto di chi indica gli attributi. Sarebbe caduto sui sediolini davanti, se non l’avessero mantenuto.

Ecco il legame del sangue. Ecco la comunanza genetica che esternalizza i cromosomi, che si fa sguardo, atteggiamento, carattere, somatica.

Ciò che lega un padre e un figlio potrebbe anche essere spiegato solo con quest’istantanea.

Mi giro verso la panchina, verso Paride, mentre Massimiliano mi abbraccia. Digrigno i denti e vedo che tutti in acqua si fanno contagiare dall’euforia. Mauro esulta e digrigna anche lui stringendo il pugno destro verso di noi. Adesso sì, possiamo farcela. Mi sono caricato una squadra sulle spalle perché non volevo perdere, non potevo perdere. Mi sembrava assurdo, mi sentivo bene e sapevo che eravamo più forti. Ma sopra ogni cosa non potevo tollerare che si finisse una gara senza aver dato tutto, senza che non avessi provato ad invertire la tendenza. Per di più in una fase finale di un campionato nazionale a Napoli, alla Scandone. Con il nostro pubblico. Non esiste.

Siamo sul 4 a 3 per loro.

Si riparte, 1.17 dalla fine. Nessuno mi può fermare, è inutile. Urlo in faccia agli avversari, li insulto e li provoco, ma prendiamo un’espulsione. Mancano 40 secondi e hanno palla loro, se non la recuperiamo non riusciremo ad arrivare dall’altra parte della vasca almeno per tentare un tiro. Non mi frega niente, mi sento onnipotente. Salto da un giocatore all’altro, perché quando si è con l’uomo in meno ogni difensore marca contemporaneamente due giocatori avversari. Fisso l’avversario che ho di fronte e gli urlo in faccia: “Vai vai merda, tira, tira che sei una merda, adesso rubo palla e segniamo, vuoi vedere merda?!”.

L’attaccante che ho alla mia sinistra cerca un passaggio da una parte all’altra dello schieramento d’attacco: la parabola è lenta, mi elevo dall’acqua e recupero palla.

Con la coda dell’occhio destro, tra gocce d’acqua che bruciano e dita avversarie, riesco a scorgere Paride che scatta in controfuga. Mi divincolo dall’avversario e lancio la palla in profondità.

Il cronometro scorre veloce: -15 secondi alla fine. Paride nuota con la palla tra le braccia verso la porta. -7 secondi. A circa 6-7 metri di distanza dalla porta si alza, tira a schizzo. Il pallone rimbalza sulla acqua, scheggia la traversa, prende la testa del portiere ed è gol.

Incredibile, come solo lo sport sa essere.

Vinciamo e andiamo in finale. È una storia come tante ne potrebbero raccontare pallanotisti che hanno praticato lo sport agonistico. Figuriamoci i campioni che hanno vinto trofei importanti.Ricordo bene quasi tutte le partite ufficiali giocate. Alcune benissimo come se le avessi giocate ieri. Momenti indelebili, sensazioni ed emozioni ipertrofizzate dalla tempesta ormonale degli adolescenti.Ogni tanto chiudo gli occhi e sono ancora lì, appena sopra il pelo dell’acqua con gli occhi, appena sotto con le mani a tirare mazzate.

Oggi sono Account Manager di Artsmedia, agenzia di comunicazione e marketing e consulente di comunicazione politica per parlamentari e Istituzioni. E l’80% di ciò che so fare del mio lavoro l’ho imparato lì: tra i fischi degli arbitri amplificati dall’eco delle piscine d’Italia, tra le mille battaglie dove mi ci tuffavo con gioia, tra le botte prese e date, tra i tiri che ti immagini in rete ma poi finiscono fuori, tra quelli che credi di aver sbagliato e invece si insaccano nella rete, tra le corsie infinite durante gli allenamenti di nuoto che ti lasciano addosso quell’odore che per gli altri è disgustoso. Che si impregna sui vestiti e dentro i tuoi ricordi.

È l’odore della mia vita, ma per tanti altri è solo puzza di cloro.

Antonio Mollo, 31 anni, social media manager, esperto di comunicazione politica e istituzionale. "Non ho mai visto esultare mio padre ad una mia partita. Tranne una."

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