Non conta battere gli altri, ma vincere sé stesso

Per Alberto Arpino, sciabolatore del Gruppo Sportivo Fiamme Rosse, la scherma è una vocazione di famiglia, Soprattutto è la disciplina che gli ha insegnato a superare sé stesso.
Alberto Arpino scherma

La scherma è considerata uno sport nobile e nell’immaginario comune rievoca antichi duelli con spade e altri armi bianche tra cavalieri o semplici duellanti che si affrontano per avere la meglio sul rivale.
Al di là dell’essere considerata la “più nobile delle discipline”, la scherma è sport di rango olimpico che, nella storia dei giochi moderni, vanta il più alto numero di medaglie vinte dalla nazionale italiana.
Nel mio caso, la scherma è anche un affare di famiglia: questa passione è stata tramandata dai nostri genitori a me e mia sorella Giulia, entrambi sciabolatori appartenenti al G.S. Sportivo Fiamme Rosse dei Vigili del Fuoco, nonostante loro praticassero fioretto con discreti risultati.
Mio padre, infatti, ha partecipato a tre edizioni delle Olimpiadi e ha vinto i Mondiali nel 1994.

Sciabola. un mondo a parte

In generale, se avvicinarsi alla scherma significa entrare in relazione con uno sport nobile per gli animi nobili, praticare la sciabola vuol dire giocare una partita di scacchi correndo a 180 Km/h, in cui ogni singola decisione deve essere presa in pochissimi millesimi di secondo e deve tener conto di qualsiasi movimento dell’avversario.
E in ogni assalto di sciabola anche una sola stoccata può fare la differenza.

L’avversario immaginario

Ad ogni modo, la scherma è uno sport individuale, in cui, molto spesso, l’avversario più difficile da superare e battere non si trova di fronte a te, sulla pedana, bensì dentro, nel profondo.
Un avversario “immaginario”, creato dalle paure e dai demoni che ti possono assalire in qualsiasi momento, che potrebbero far crollare in un nanosecondo tutto il tuo castello di sicurezze costruito durante interminabili sedute di allenamento.
La scherma è uno sport mentale, nel quale l’arma più forte e più vincente non è sempre quella che impugni con la tua mano, ma quella che si trova nella tua testa.

Questo concetto mi fu più chiaro nella stagione agonistica 2017- 2018, durante il mio ultimo anno da under 20.
Nonostante fossi il numero 2 del ranking italiano, nella prima parte della stagione faticai ad impormi e ad ottenere risultati in ambito internazionale. Gli stessi risultati che per me erano stati momenti felici e di gioia negli anni precedenti – come il bronzo individuale conquistato tre anni prima al mondiale di Tashkent nel 2015 nella categoria U17, trampolino per il mio ingresso nelle Fiamme Rosse – erano diventati una sorta di ossessione, nella peggiore accezione del termine.

Chi fa sport ad alti livelli può capirmi: c’è una linea sottile tra un obiettivo ed un’ossessione, che molto spesso, quando si sorpassa, rischia di diventare controproducente, fino a divenire un ostacolo insormontabile.
Questo è quello che mi accadde nella prima parte di quella stagione: quella voglia matta di raggiungere a tutti i costi un risultato a livello internazionale mi stava bloccando. Dopo le prime gare senza successi, dentro di me era nato un desiderio irrefrenabile di dover dimostrare a tutto il mondo il mio livello, ma facendo così non mi accorgevo che stavo entrando in un loop pericoloso, che stava per far riemergere quei demoni interni che ti possono paralizzare e far dubitare delle tue capacità.

Così facendo, i risultati internazionali continuarono a non arrivare, al contrario delle gare nazionali dove ero premiato sempre a podio. Pur mantenendo la seconda posizione nel ranking nazionale, per la prima volta fui messo in discussione e fu messa in discussione la mia presenza nella squadra che avrebbe partecipato agli Europei di Sochi in Russia, nel marzo del 2018.
Fu il momento più basso della stagione: era l’inizio di gennaio e mi sentivo perso.

Però, se c’è una cosa che mi ha insegnato lo sport e in particolare la scherma, è che non conta quante volte cadi, ma quante volte ti rialzi. Quando ripensai a tutto ciò, quel giorno fu per me come un nuovo inizio: decisi di tenere le mie paure e le mie insicurezze alle spalle, o meglio, dentro di me, rinchiuse all’interno di una cassaforte blindata di cui solo io conoscevo la combinazione.
Quel giorno mi feci una promessa: niente e nessuno avrebbe potuto fermarmi.

Fu così che i primi risultati incominciarono ad arrivare; nelle ultime tre gare di Coppa del mondo prima degli Europei feci tre buone prestazioni: due volte nei primi 8 e un 3° posto. La sicurezza che prima sembrava essere svanita incominciò a tornare, l’ingranaggio che si era inceppato improvvisamente stava riprendendo a girare, ad una velocità mai raggiunta in precedenza.

Il giorno dell’Europeo

Infine arrivò il giorno dell’Europeo, quella dannata gara che ora non era più un’ossessione, ma un obiettivo che avevo raggiunto. Per come era iniziata la stagione per me era già un grande risultato essere arrivato a quei Campionati, ma mancava la ciliegina sulla torta, un risultato che consacrasse il duro lavoro, soprattutto mentale e psicologico, che avevo affrontato. Un risultato che serviva per dimostrare a me e non più agli altri che solo io ero il padrone del mio destino e che volere è potere.

Alberto Arpino SchermaLa mattina della gara mi svegliai con un livello di concentrazione e di tranquillità mai provati prima; nel riscaldamento mi sentivo carico e pronto ad iniziare la guerra. Superai tranquillamente i gironi di qualificazione, subito dopo avrei dovuto affrontare un bulgaro per entrare nel tabellone dei 16: un assalto sulla carta facile, ma che di facile non ebbe niente.
Me ne accorsi quando improvvisamente mi ritrovai sotto 12-6, considerato che si arriva a 15 per vincere l’incontro.

Le gambe stavano tremando e i demoni e le paure che mi avevano perseguitato nella prima parte della stagione stavano riemergendo; mi fermai e dentro di me pensai “non ora, non posso, lo devo a me stesso”.
Fu così che recuperai quel match e lo vinsi 15-13; vinsi anche quello successivo (15-9) per entrare nei primi otto, contro un tedesco che era il numero 1 della gara, cosa che al momento dell’assalto non mi turbò minimamente.

Alberto Arpino schermaL’ultimo ostacolo

Tra me e la medaglia c’era solo un ultimo ostacolo da superare: un russo, il campione europeo in carica che all’ultima gara di Coppa del Mondo mi aveva battuto.

Capii che non era quello il momento in cui mi potevo fermare, niente e nessuno mi avrebbe interrotto.
Ad oggi quel match è forse il migliore che abbia mai disputato nella mia carriera: battei il mio avversario 15-10 e mi assicurai il podio agli Europei.
L’accesso alla finale per l’oro mi fu sbarrato per un solo punto, inflittomi da un francese che poi vinse la competizione.
C’era tanto rammarico, ma impedii che quest’ultimo oscurasse il meraviglioso traguardo che avevo raggiunto: una medaglia di bronzo, che per me aveva il sapore d’oro.

Come afferma Mezzosangue, uno dei miei cantati rapper preferiti, in una canzone “sa di poco il cielo se non hai mangiato prima la sabbia dal fondo…”.
Alberto Arpino schermaAgli Europei il cielo lo sfiorai con un dito, ma per tutto quello che avevo passato per me era una grande vittoria: in primis contro me stesso o meglio, contro il mio lato oscuro.  
Quella medaglia è la dimostrazione che la mente è la tua più forte arma a disposizione e che attraverso il sacrificio, il duro lavoro, dopo aver battuto gli avversari e anche sé stessi, si possono raggiungere  risultati straordinari.

 

Alberto Arpino 23 anni, sciabolatore della Nazionale italiana e del Gruppo Sportivo Fiamme Rosse Vigili del Fuoco. Nel 2018 Campione del mondo u20 a squadre, bronzo individuale agli Europei u20 di Sochi, n° 2 del ranking italiano u20. Da u17 bronzo individuale al Mondiale di Tashkent nel 2015 e bronzo a squadre agli Europei di Maribor, vincitore del ranking italiano e numero 4 in quello mondiale. Nel 2019 ho partecipato alle Universiadi di Napoli. Laureato in Scienze sociali e politiche, studio Management delle attività motorie e sportive all’Università Alma Mater di Bologna. Alfiere della Repubblica dal 2016.

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