Il tifo: scena e rappresentazione

Dodicesimo uomo o quinto media? La risposta in una lettura non convenzionale del tifo e della sua rappresentazione mediatica.
Foto © Danilo Obradovic

Da oltre un anno la pandemia ha privato le partite di calcio del cosiddetto dodicesimo uomo in campo. Ma la desolazione è generale in tutte le arene di ogni parte del mondo, che si tratti di basket, tennis, rugby o dello stesso calcio, in Europa come in America o in Oriente. Anche le prossime Olimpiadi in Giappone, se si terranno, saranno caratterizzate dall’assenza di pubblico e quindi dal silenzio dei tifosi che, in occasione di tali grandi eventi, si spostano da un Paese all’altro per occupare gli spalti delle tante strutture sportive destinati alle varie discipline e per sostenere i propri beniamini e non solo.
Ma torniamo in campo amico.
Se ci soffermiamo sul pubblico degli eventi sportivi dobbiamo necessariamente fare riferimento anche al “tifo” che muta da luogo a luogo, come da latitudine a latitudine o da sport a sport. Ne parliamo con Michele Dentico, dottorando di ricerca presso la Sapienza, la più importante Università di Roma e tra le più antiche al mondo, autore di uno studio etnografico delle pratiche sociali raccolto in un approfondito saggio, il cui focus si sofferma su quelle comunità che sovente vengono criminalizzate.

Parliamo dei tifosi e quindi del “tifo” come fenomeno sociale per formulare la prima domanda al nostro giovane esperto al quale chiediamo se sia possibile conoscere in che misura l’assenza di pubblico, e quindi di tifo, possa incidere sul rendimento di un atleta o di una intera squadra nello svolgimento di una competizione.

È difficile stabilire in che modo l’assenza di pubblico possa incidere sul rendimento di un atleta, sono tuttavia certo che viene a mancare uno degli attori che contribuiscono a costituire l’evento sportivo. Detto ciò, le immagini degli stadi o dei palazzetti vuoti che hanno accompagnato questi mesi di pandemia sembrano provenire da un tetro romanzo distopico dove lo spettacolo continua a prescindere, nonostante fuori delle arene ci sia la morte. Questo, ovviamente vale solo a livello simbolico in quanto le misure sanitarie di contenimento del virus hanno imposto un’accelerazione di un processo di mediatizzazione dell’offerta sportiva e culturale che ha consentito ugualmente di fruire degli eventi. Sarà invece molto interessante vedere – con il ritorno del pubblico sugli spalti – come reagiranno gli atleti all’intensità degli stimoli che solo la vicinanza della folla può provocare.

Nella sua pubblicazione, gli spazi destinati ai tifosi – che si tratti di tribune, gradinate o curve – lei li definisce “Luoghi d’instabilità”, cosa intende affermare con queste parole?

Si tratta di spazi deputati alla condivisione simultanea di migliaia di persone (i tifosi) a strettissimo contatto. Al di là dell’intenzionalità della progettazione di tali spazi, e da come vengono poi fruiti, si tratta di una gamma di soggetti talmente ampia, soprattutto nel calcio, da rendere problematica qualsiasi classificazione e gestione degli stessi. Ecco quindi la necessità di intervenire sugli impianti nel corso degli anni con modifiche strutturali per adeguarli al continuo susseguirsi delle “norme antiviolenza” volte a contenere sempre più l’intemperanza di certi soggetti, predisposti a comportamenti degenerativi. Ma siamo veramente convinti che gli interventi sull’infrastruttura siano realmente motivati da ragioni di sicurezza, e non piuttosto dalla volontà di orientare in direzione consumistica certi comportamenti dei tifosi? A costo di peccare di cinismo e a titolo esemplificativo, invito i lettori a riflettere sul numero dei morti negli ultimi trent’anni negli stadi italiani e, ad esempio, le vittime in soli sei mesi sulle strade urbane romane. Apparirà chiaro che la dimensione della sicurezza sia quanto meno strumentale, mentre gli interventi strutturali negli stadi sono volti prevalentemente a narcotizzare la dimensione conflittuale delle aggregazioni di massa, da una parte, e dall’altra, a mettere a valore economico tutti quegli aspetti passionali del tifoso che possono renderlo un perfetto cliente: quello che molti autori definiscono consum-attore.

Posizioniamo la lente d’ingrandimento sui campi di pallone, qual è la sua analisi?

Bene, è doveroso allora soffermarsi sul gioco del calcio, e sulle modalità con cui gli spettatori seguono questo sport dal vivo. Da un lato c’è la partita, elemento su cui si fonda l’esperienza dello spettatore, dall’altro, come dicevo, i corpi di centinaia o migliaia di soggetti costretti nella condivisione di uno spazio in una situazione di scomodità. Le modalità con le quali si segue il calcio, pur nella similitudine della gran parte degli stadi, allo stesso tempo si sono rivelate molto caratterizzanti così da differenziarsi l’una con l’altra, contribuendo a definire identità collettive complesse. Accenniamo qualche esempio, giusto per chiarire il concetto. Il tifo organizzato della squadra di Los Angeles è prevalentemente formato da latino-americani e gli slogan sono in lingua ispanica; a Montreal il tifo è manifestato attraverso cori in lingua francese; Paesi lontani dalla copertura mediatica o dal tifo europeo registrano picchi di presenze inimmaginabili, basti pensare agli spalti di una partita in una città marocchina, della Serbia o in Grecia e al loro tifo passionale. Spettacolare, proprio nel senso di bello a vedersi, il tifo in Brasile in tutte le manifestazioni sportive. Tante tifoserie, come quelle asiatiche e nord-africane prendono a piene mani dalle configurazioni culturali del panorama ultras italiano che, per molti decenni, è stato insieme agli hooligan il modello egemone del “fare il tifo” allo stadio.

Mi dice perché si tifa e se esiste il “fattore campo”?

L’idea che i tifosi possano influenzare l’andamento di una partita è giustificato dalle statistiche. Tutte le squadre del mondo vantano tra le mura amiche un ruolino di marcia migliore di quello in trasferta. Il fattore campo e i successi in casa dimostrano che andare allo stadio e partecipare è di gran lunga meglio che andarci come spettatore, pertanto, tifare, può fare la differenza tra vincere una partita o uscirne sconfitti. La stessa organizzazione delle competizioni prevede una partita in casa e l’altra in trasferta, proprio per bilanciare i benefici derivanti dal giocare tra le “mura amiche”. Tale doppia dimensione evidenzia l’opportunità di mettere in pratica tutto ciò che è in potere delle comunità tifose per sfruttare quanto più possibile questi vantaggi. Con l’assenza del pubblico negli stadi, si genera un ridimensionamento di tale aspetto, tant’è che le differenze statistiche fra dentro e fuori sono risultate meno nette.
Tutto questo vale solo per gli sport di squadra dove la dimensione di conflitto tra comunità si correla con le città e i paesi che rappresentano. Le squadre vengono chiamate anche rappresentative e spesso riportano nei loro stemmi chiari richiami all’araldica cittadina. Altro invece è per gli sport individuali: due tennisti, non rappresentano un agire collettivo e rende più difficile l’identificazione di soggetti collettivi che non siano le nazioni di appartenenza: si potrebbe parlare piuttosto di divismo. L’esempio del tennis appare paradigmatico proprio per la trasformazione della dimensione simbolica del tifo quando viene giocata la Coppa Davis.

Nelle fonti giornalistiche spesso si parla di tifosi buoni e di tifosi cattivi, lei tende a smontare tale ipotesi, qual è la sua posizione al riguardo?

Una netta distinzione tra tifosi buoni e cattivi presuppone un’opposizione semantica che ormai non può essere chiave di lettura neppure nelle contemporanee narrazioni letterarie, televisive o cinematografiche. In secondo luogo dobbiamo domandarci chi pone questa dicotomia e qual è il punto di vista che le dà forma. L’assunzione strumentale di questi paradigmi, unita a mio parere a una superficiale informazione, hanno indotto a produrre tutta una serie di interventi di tipo legislativo che nel corso del tempo hanno modificato anche alcuni aspetti della pratica del tifo. Con l’intenzione di incidere sulla dimensione conflittuale di queste aggregazioni collettive, sono stati anche stravolti alcuni degli elementi che fondano la passione e il piacere dello “stare allo stadio”. Non è mia intenzione mettere sul banco degli imputati i media, è la cultura massmediale occidentale contemporanea che applica l’etichetta della violenza senza troppe discriminazioni.
London is under attack, anche quando uno squilibrato, decisamente privo della volontà di fare una strage, ferisce con un temperino un passante.
Si tratta di un modo di gestire le informazioni dove il sensazionalismo, insieme al mito della sicurezza, diventa la guida per processare qualsiasi evento che riguardi l’incolumità psicofisica di un qualunque soggetto. Come possiamo pensare che il calcio sia esente da questa tendenza mediatica? In questo quadro poi non è più pertinente discernere la violenza simbolica da quella reale. Diventa così notizia anche lo scandire cori di scherno nei confronti degli avversari, al punto che venga messo in discussione uno degli aspetti più caratterizzanti dell’immaginario del tifo da stadio. Gli sfottò finiscono infatti per essere identificati come elemento di “discriminazione territoriale”. Si può mai pensare che i tifosi romanisti che hanno cantato cori contro Napoli, Bergamo o Liverpool, odino tutti gli abitanti di queste città in quanto tali? Etichettare tali comportamenti come razzisti significa fare una pericolosa forzatura e non permettere invece di riconoscere, quando è necessario, forme di razzismo vere e proprie che vengono ricondotte a configurazioni stereotipiche degli stadi che poco o nulla hanno in comune con il razzismo che invece è necessario combattere. E per farlo bisogna riconoscerlo.
Come valutare i cori contro la Juventus che, come afferma il noto giornalista Mario Sconcerti “non ha una città alle spalle”? La discriminazione in questo caso riguarderebbe l’Italia intera vista la composizione nazional popolare della tifoseria juventina.

Sulla citazione di Sconcerti ringraziamo e salutiamo Dentico, augurandoci di averlo presto nostro ospite per trattare altri temi legati al mondo dello sport dal suo osservatorio privilegiato.

 

Vincenzo Mascellaro, uomo di marketing, comunicazione e lobby, formatore, scrittore e oggi prestato al giornalismo

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