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Il primo gol, il primo bacio!

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Chi ama il calcio difficilmente non sarà d’accordo con me.

L’emozione del primo goal, quello fatto in un campo vero, sotto occhi che ti guardano mentre tu corri dietro a sogni e pallone, durante una partita ufficiale, è pura estasi, pari se non più forte di quella del primo bacio rubato da adolescente.

Non necessariamente i due momenti coincidono, la vita e il pallone giocano spesso per conto loro e non sempre si danno di conto, ma per me quei momenti hanno un numero preciso, anzi un anno preciso.

Io il 1976 non l’ho più scordato; avevo 12 anni, segnai il primo gol e baciai per la prima volta una ragazza.

Il bacio fu travolgente, inaspettato, meraviglioso arrivato in estate dopo una intensa relazione epistolare durata tutto l’inverno, epistolare vera, letterine spedite e attese.

Proprio come il primo goal, inaspettato, travolgente, meraviglioso e, soprattutto, atteso.

Pare che con il primo bacio si diventi grandi, ma vi assicuro che io grande sono diventato anche per quel goal.

Come detto siamo nel 76, il primo anno in una squadra di calcio vera, iscritta al campionato federale, categoria esordienti 76-77.

La squadra per dovere di cronaca era “La Veneta”, società sportiva fondata dalla mia mamma, che pur di far felici i due figli maschi, si era spinta a tal punto da creare un mondo di calcio intorni a noi.

Nelle prime partite di campionato non riuscii a trovare un posto da titolare: il mio ruolo era attaccante e la concorrenza per la maglia n.9 era agguerrita.

Mio fratello Alberto si fece subito notare e divenne centrale di difesa inamovibile per tutta la stagione, io, invece, il posto me lo dovetti sudare.

Era fredda quella domenica, una di quelle giornate di dicembre che neanche a Roma regalano nulla.

Era poco prima di Natale, quella domenica ebbi la mia occasione e non me la lasciai sfuggire.

Giocavamo fuori casa, sul campo del Tirreno, una squadra del quartiere Monte Sacro; noi in casa giocavamo al Cristo Re, campo all’interno dell’omonimo Istituto vicino Via Nemorense e a casa nostra.

Adolfo, il nostro Mister, un’aurea di rispetto che ancora me la vedo davanti, nello spogliatoio poco prima della partita, declina i nomi degli 11 che scenderanno in campo, gli altri in panchina e uno, se gli diceva male, a turno settimanale, subiva l’onta di vedersi assegnata la bandierina e il compito di fare il segnalinee (torto da me subito più di una volta…).

Decisa la formazione e la consegna delle maglie, una manciata di minuti ci separavano dal fischio di inizio.

Uscii dagli spogliatoi e mi diressi verso il campo con le gambe tremanti e il cuore a mille, come se stessi trasportando sulle spalle un macigno di cento chili, tanto pesava quel meraviglioso numero 9!

Tutti schierati a centro campo per il saluto di rito al pubblico presente, qualche genitore che assonnato e morso dal gelo del mattino, con amore e spirito di sacrificio, gli era toccato accompagnare il figlio.

Palla al centro, fischio dell’arbitro, inizia la partita.

Devo ammettere che mi ci vollero dieci minuti buoni per capire dove mi trovassi, forse anche qualcosa in più.

Era la mia prima volta da titolare e probabilmente lo avrebbe intuito anche il più assonnato spettatore vedendomi correre avanti e dietro a un pallone che sembrava non volerne sapere di farsi avvicinare da me.

I miei compagni si passavano la palla, lanciando anche bordate da un lato all’altro del campo, ignorando evidentemente la mia presenza temendo, forse, che la mia partecipazione al gioco avesse potuto interrompere la danza preparatoria dell’attacco.

Il loro dubbio in pochi attimi trovò conferma; la passano, mi arriva e dopo un mio maldestro tentativo di stop, la palla finisce a rotolare oltre la linea laterale. Se avessi avuto una pala a portata di mano, mi sarei scavato la fossa proprio lì.

Ok non ti demoralizzare, mi dissi con poca convinzione visto che lo ero del tutto e mi veniva quasi da piangere.

Stavo sprecando l’occasione di mettermi in mostra, anzi mi stavo mostrando come pippa atomica, ma vi giuro che non lo ero affatto. Mi sentivo bloccato, senza coraggio, travolto da una forza negativa che, minuto dopo minuto, non mi lasciava spazio di manovra.

Il primo tempo stava per terminare con il risultato di 0 a 0 e, al netto del mio scarso contributo, anche quei “fenomeni” dei miei compagni, non stavano certo facendo la partita della vita.

Doppio fischio dell’arbitro, fine primo tempo.

Rassegnato mi diressi verso gli spogliatoi con la certezza che da lì a poco il Mister mi avrebbe sostituito per provare a giocare in undici contro undici, vista la mia latitanza nel primo tempo.

Evidentemente quel giorno anche la sfiga non si accorse di me, il Mister non fece cambi e tornai in campo al mio posto senza merito.

Distratto dai pensieri cupi, entrando voltai leggermente lo sguardo verso gli spalti.

Al gelo, ma luminosa come un raggio di sole che del gelo si fa beffa, mamma.

Era la prima volta che veniva al campo, l’emozione di vederla in un attimo diventò panico e il pensiero che se mi avesse visto giocare in quel modo si sarebbe pentita di aver architettato tutto l’Ambaradan per far felice il pupo, mi prese allo stomaco.

Mi avvicinai agli spalti per salutarla e il suo sorriso non lasciava speranze diverse: era lì per me ed era felice di esserci.

Ecco, peggio di così non poteva andare, pensai…

Dove ho messo la pala? Ma proprio oggi? Ammazza che sfiga nera.

Fischio dell’arbitro, si riparte, il pallone corre sempre più veloce delle mie gambe, una palla che mi arriva per chissà quale miracolo mi sbrigo anche a passarla per paura di fare altri disastri, tutto sembra il déjà vu dell’orrore del primo tempo.

Lo 0 a 0 sembrava il risultato più probabile, malgrado l’impegno – adesso sì – dei miei compagni.

Da parte mia correvo, correvo, correvo, a vuoto, ma correvo.

Massimetto, il più talentuoso dei mie compagni, arpiona una palla a centro campo, dribbla una mezza dozzina di avversari, alza la testa, pare stia guardando me, no impossibile.

Lascia partire un traversone, lungo quasi quanto lo stretto di Messina.

Panico assoluto.

La palla, che per tutto il primo tempo pareva temesse che avessi la lebbra, cerca proprio me.

E mò? La prima cosa che ho pensato: beh, faccio finta di niente e mi allontano alla chetichella, magari interviene Roberto, mio amico del cuore da allora e ci pensa lui!

No, quella dannata palla non vedeva altri che me, più mi allontanavo e più si avvicinava. Massimetto era davvero un cecchino, mannaggia a lui.

Era una palla alta, difficile da addomesticare. Sicuramente difficile, anzi impossibile per me. Ero arrivato al vertice dell’area, non avevo più scampo.

La coda dell’occhio fugge verso gli spalti con la speranza che mamma fosse distratta o addirittura se ne fosse andata. Ma che! Aveva gli occhi puntati e le braccia al cielo; non le ho mai più chiesto se per invocare qualche insperata fortuna o se per la gioia di vedermi toccare palla.

Tutto questo proprio mentre io stavo per fare la classica figura di…niente.

Ma fu tutto veloce, secondi e frazioni di secondi.

Non c’era più tempo, il pallone stava scendendo alle velocità della luce, impossibile a quel punto sottrarsi ad un destino che inesorabilmente stava per sancire la mia fine calcistica oltre che umana e sociale.

Presi un respiro così profondo che temo di aver sottratto aria a tutto Monte Sacro.

Eccola, scende, mi colpirà sul naso, me lo schianta, inalo aria per dieci polmoni cercai nei cassetti della memoria un gesto tecnico che solo il vero Giorgio, l’unico, Giorgio Chinaglia, sarebbe stato in grado di cacciare dal cilindro magico dei campioni.

Articolai in maniera assolutamente innaturale il corpo – avete presente “il colpo della gru” in Karate Kid, quello del metti cera togli cera? – ebbene, colpii la palla con un coordinamento tale che solo sulle figurine panini lo puoi ritrovare.

Il pallone, sino a quel momento mio acerrimo nemico, adesso giocava per me, eravamo un tutt’uno.

Usci fuori una bordata colossale che finì la sua corsa sotto al sette.

Goal!

In un frammento di secondo riuscii a decifrare il pensiero dei 22 in campo, degli allenatori e di tutti i presenti. Il portiere avversario non poté far altro che raccogliere il pallone catturato dentro la rete.

Gli avversari avevano lo sguardo fisso su di me e in faccia stampata la sorpresa di chi non si aspettava nulla da uno che non era mai stato in partita.

Nella frazione di secondo dopo fui assalito e abbattuto da tutti i miei compagni di squadra.

Indemoniati, esaltati, in un attimo fummo tutti uno solo.

Dopo essermi liberato iniziai a correre verso gli spalti, non potevo non farlo e sono sicuro che lei aspettasse solo quello, non tanto il goal per il goal, il gesto atletico, ma la corsa, la mia corsa verso di lei.

Era lì e danzava come una bimba che riceve la sua prima Barbie, la sua gioia era la mia, la sua energia era la mia, era gioia, era cuore ed era amore.

Anche l’arbitro si era reso conto che dopo quel gol il resto sarebbe stato un inutile contorno. Triplice fischio!

Quel gol è per te mamma.

Ogni volta che ci penso si riapre quel dialogo infinito tra noi, che continua anche adesso che non ci sei più, ma che sei dentro me.

Mi hai donato una squadra di calcio e hai donato a tutti noi ragazzi molto di più.

Una scuola di vita, di aggregazione, di amicizia profonda.

Ecco, ho provato a descrivere una forte emozione, ma spesso le parole alle emozioni vanno strette.

Forse per questo, quasi sempre le lasciamo vivere più dentro che fuori di noi.

Buone emozioni a tutti voi.

Giorgio Giuliani, 1964, penultimo di quattro figli, ma in compenso l'unico non laureato e con un avventuroso percorso scolastico più volte incidentato. Sposato una sola volta finita forse troppo presto, innamorato di due figlie e di una splendida ragazza che dopo tanti anni ancora mi sopporta. Ma non basta; amo il mare, incredibilmente mi commuovo davanti a un film, ascolto musica classica, impazzisco per il piano bar, molto per il bar. Da un paio di anni leggo e studio filosofia: un piacere immenso che se avessi scoperto prima mi avrebbe fatto vivere una vita più bella, più ricca e più libera.

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