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Harold Abrahams. Il velocista con la faccia da pugile (II)

Harold Abrahams, il velocista con una faccia da pugile e una vita da film. Inglese di origine ebreo-lituana, studierà nei migliori college, sfiorerà la Prima Guerra Mondiale e nel 1924 si andrà a prendere l'oro olimpico a Parigi
HAROLD ABRAHAMS PARIGI 1924

La marcia di avvicinamento ai Giochi di Parigi cominciò praticamente nel 1922.
In una riunione preolimpica Harold Abrahams si aggiudicò le 100 yard in 10.0 e fece una puntata, per lui insolita, anche sul giro di pista dove ottenne il suo miglior tempo in carriera: 50.8.
Nella stessa manifestazione si impose anche nella prova di salto in lungo con la misura di m. 7.19 stabilendo il nuovo record britannico.
In quegli anni stava emergendo nel Regno Unito anche un altro grande atleta: lo scozzese Eric Liddell, le cui imprese venivano riportate in Inghilterra con grande clamore.

Lo scontro fra Abrahams e Liddell era atteso da tutti i tecnici e gli sportivi con grande curiosità. L’occasione propizia sembrava essere quella offerta dai campionati A.A.A. del 1922, ma all’ultimo momento Abrahams fu colpito da una violenta forma di tracheite e, pur schierandosi al via non poté opporsi ad un Liddell al meglio della condizione.

Samuel “Sam” Mussabini

Due settimane dopo, rimessosi completamente, Harold sulla pista in rettilineo dello stadio di Wembley corse il più veloce furlong (ndr: 200 metri in rettilineo) della sua vita nel tempo di 21.6y.
Un anno prima dei Giochi Abrahams, come abbiamo già accennato, prese una decisione che fece molto scalpore, specialmente a Cambridge nel suo ambiente di studio, dove i conservatori imperavano; egli decise di affidarsi ad un allenatore di “grido” e la scelta cadde sul coach che da anni aveva seguito e guidato tanti campioni: Samuel “Sam” Mussabini, ben conosciuto anche nell’ambiente dei professionisti.

L’allenatore franco-arabo, considerato anche un grande esperto di ciclismo e di biliardo, intervenne decisamente per correggere e rendere più efficaci le risorse tecniche di Abrahams. Lavorò sulla partenza, ma soprattutto corresse la sua falcata, riducendone l’ampiezza a vantaggio delle frequenze, e potenziò l’azione delle braccia durante la corsa e nella fase di arrivo.
Grande cura venne riservata anche all’elasticità del passo ed alla ricerca della più aerodinamica posizione da assumere nel finale di gara, al momento di tagliare il traguardo con il petto.

Nei suoi ricordi Abrahams ha lasciato scritto: “Io fino ad allora ero solito allenarmi due o tre volte la settimana. La mia sessione di allenamento consisteva principalmente in lavori di perfezionamento della partenza e nella correzione del movimento delle braccia durante la corsa. Non c’erano ancora all’epoca i blocchi di partenza e quindi grande cura veniva riposta alla preparazione delle buchette. La mia intesa con Sam era ideale perché lui non si comportava nei miei confronti da despota. Noi disputavamo per ore su vari temi tecnici ed alla fine io mi accorgevo che le sue teorie erano le più valide; questo non perché esse erano dettate dalla sua esperienza, ma perché la mia mente le aveva trovate giuste ed accettate”.

 Il cambio di passo

I frutti del lavoro di Mussabini si videro ben presto.
Il 7 giugno del 1924 in un incontro inter-club a Woolwich, Abrahams raggiunse la misura di m. 7.38 nel salto in lungo, demolendo il suo record nazionale e stabilendo un primato destinato a resistere per ben trenta anni, fino al 1954 quando il limite venne superato da Ken Wilmshurst.
Nella stessa manifestazione egli corse anche le 100 yard, aggiudicandosi la gara nel tempo di 9.6 che uguagliava il primato del mondo. Venne però accertato che durante la prova il vento aveva soffiato con generosità alle spalle dei concorrenti e quindi la prestazione non fu inoltrata per l’omologazione.

Due settimane più tardi ai campionati A.A.A. vinse le 100 yard (9.9) ed il salto in lungo (m. 6.92), divenendo il primo e unico atleta fino a quel momento ad aver vinto contemporaneamente quei titoli nella massima rassegna inglese.
L’impresa gli valse naturalmente l’assegnazione della Memorial Harvey Cup.

L’operazione Mussabini aveva forgiato un atleta completamente nuovo ed Abrahams ottenne facilmente l’inclusione nella squadra olimpica inglese per i Giochi di Parigi.

Harold Abrahams e il Principe di Galles

(Harold Abrahams e il Principe di Galles)

Il futuro e le polemiche

I suoi dirigenti riposero in lui la massima fiducia iscrivendolo a ben quattro gare: 100, 200, salto in lungo e staffetta 4×100, decisione che lasciò sbigottito e preoccupato l’atleta di Caius.
La stampa inglese – in particolare il Daily Express – esaminato il programma e gli orari delle gare criticò molto la decisione dei dirigenti della A.A.A. ritenendo che l’impegno per il giovane Harold fosse eccessivo.
La polemica sortì l’effetto di far rientrare la partecipazione di Abrahams alla prova di salto in lungo.
Si dice che l’articolo che aveva dato origine al “caso” fosse stato scritto dallo stesso Abrahams.

Sembra comunque che il vero motivo della rinuncia di Abrahams alla prova di salto in lungo, debba essere ricercato in una esperienza negativa che il saltatore inglese aveva riportato in occasione dell’incontro fra le squadre di Oxford e Cambridge e quelle di Yale e Harvard svoltosi nel 1921 negli Stati Uniti.
In quella circostanza Abrahams venne sconfitto di misura dall’afro americano Edward Gourdin sulle 100 yard e strapazzato nella prova di salto in lungo, dove l’americano si impose con la misura di m. 7.69, che costituiva il nuovo primato mondiale, relegando Harold, che aveva ottenuto appena m. 6.73, al secondo posto.

Abrahams stesso raccontò molti anni dopo questo episodio a Roberto L. Quercetani, aggiungendo che in quel momento, esterrefatto per la regolarità dimostrata da Gourdin, “giurò” che d’ora in avanti avrebbe sempre evitato di gareggiare nel salto in lungo con gli americani.
Abrahams aveva letto con apprensione le previsioni della stampa che davano gli americani favoriti assoluti delle gare di velocità e gli articoli che magnificavano le imprese e le doti di Paddock, Scholz e Murchison, che al loro arrivo a Parigi avevano ricevuto accoglienze entusiastiche.

Harold annotò nel suo diario parigino: “Gli americani visti in allenamento mi parvero di un’altra classe, sicuramente superiore alla nostra. Questa non è falsa modestia perché io – d’accordo con i miei compagni – non mi sono mai fatto una così alta considerazione della mia abilità”.
Ed inoltre: “In verità io non credevo di avere possibilità di conquistare la medaglia d’oro; del mio parere non erano tutti gli altri! Io non l’ho mai pensato, sebbene il mio allenatore mi avesse inviato proprio prima dell’inaugurazione dei Giochi uno scritto nel quale mi pronosticava vincitore. Ma io non mi lasciai turbare da questa previsione, e questo fu per me una fortuna!”

I fatti comunque, come vedremo, dettero ragione alla costanza e alla caparbietà di Abrahams.

HAROLD ABRAHAMS PARIGI 1924
(1924, La finale di Parigi)

Finalmente Parigi

Abrahams esordì a Parigi il 6 luglio del 1924 vincendo la 14° batteria (in totale le batterie furono 17) in 11.0. Altrettanto fecero gli americani Murchison (1° batteria in 10.8), Paddock (3° batteria in 11.2) e Scholz (13° batteria in 10.9).

Nei quarti, che qualificarono per le semifinali il nostro Giovanni Frangipane, risultato che verrà uguagliato anni addietro da Stefano Tilli, Harold scoprì la sue carte e si impose nel quarto in 10.6 uguagliando il primato olimpico di Donald Lippincott che risaliva a Stoccolma del 1912. Bene fecero anche Murchison, Bowman, Paddock e Scholz. Sorprese il neozelandese Porritt.

Nelle due semifinali corse il 7 luglio Abrahams si impegnò nuovamente a fondo è vinse la seconda ancora in 10.6, battendo Paddock e Bowman. Scholz nella prima regolò in 10.8 sia Porritt che Murchison.

In finale

Alla finale che si corse quello stesso 7 luglio ebbero accesso i quattro americani: Paddock, Scholz, Bowman e Murchison, il neozelandese Arthur Porritt e l’inglese Harold Abrahams.
Paddock, Scholz e Murchison erano reduci dalla finale dei Giochi di Anversa del 1920 nella quale si era imposto Charles Paddock.
Arthur Porritt era l’unico dei finalisti ad essere approdato alla finale senza aver vinto neppure un turno eliminatorio; il suo nome quindi non raccoglieva grandi favori.

ABRAHAMS Parigi 1924Abrahams aveva ricevuto da Mussabini un’ultima raccomandazione. Il vecchio coach aveva detto al suo allievo: “Al momento della partenza devi pensare a due sole cose: al colpo di pistola ed alla linea del traguardo. Quando avrai udito il primo, corri come un dannato fino a che non avrai raggiunto la seconda!”

A parte la ricostruzione, abbastanza fedele della partenza di questa finale, fatta da Hugh Hudson nel suo film Chariots of fire, esiste anche un documento d’epoca realizzato per la Rapid Film dal regista francese Jean de Rovera su commissione della federazione inglese A.A.A., che ci mostra, insieme ad altre fasi delle gare di atletica, anche la finale dei 100 metri.

Immagini dal vero

Noi abbiamo avuto l’opportunità di visionare il film in casa dell’amico Luciano Fracchia di Asti. Il prof. Fracchia, possessore di una cineteca privata di atletica leggera che senza ombra di dubbio non ha eguali al mondo, venne a conoscenza da un’inserzione riportata sulla rivista americana “Track & Field News” della disponibilità di questo film, e lo acquistò dal suo proprietario, l’atleta inglese Guy Butler, il quale lo aveva avuto in premio dalla sua federazione per le belle prestazioni offerte ai Giochi di Anversa e di Parigi, dove si era classificato al secondo e terzo posto nella gara dei 400 metri piani.

Il filmato della gara olimpica dei 100 metri ci mostra i finalisti nell’atto di preparare le “buchette” di partenza, mentre il Dr. Moir, con indosso un lungo camice bianco e in testa un “panama” pure bianco con larga fascia nera – divisa abituale degli starters di quell’epoca – si aggirava fra i concorrenti dando consigli e facendo raccomandazioni.
Contemporaneamente un addetto al campo in possesso di un attrezzo simile a quello che oggi si usa per tracciare le righe sui campi di calcio, ridisegnava la linea di partenza aggiungendo gesso bianco fresco nei punti rovinati dal passaggio dei concorrenti impegnati nelle prove sul giro di pista.

Abrahams aveva da poco finito la sua preparazione che consisteva in una blanda corsa sulle punte per circa 150 yard sull’erba del prato, avendo l’accortezza di tirare molto su le ginocchia ed intervallando questa pratica con brevi scatti.
Gli atleti finalisti al comando dello starter inglese Dr. Edward Moir, si schierarono sulla linea di partenza in quest’ordine, partendo dall’interno pista, ovverosia dalla prima corsia: Paddock, Scholz, Murchison, Abrahams, Bowman e Porritt.

Ad eccezione di Porritt che indossava la divisa completamente nera della nazionale neo-zelandese, tutti gli altri atleti avevano maglie bianche.

A vos marques!

Il Dr. Moir attese che il radiocronista Freddie Dartnell del Daily News, collocato nel box della stampa vicino alla partenza, avesse abbassato il tono concitato della sua voce e poi ordinò A vos marques seguito subito dopo dal prêt!
A questo comando i velocisti inarcarono la schiena e sollevarono il bacino, mentre le braccia sostenevano il peso del corpo nella scomoda posizione di partenza, che avvenne al primo tentativo grazie alla perizia dello starter che seppe cogliere il momento giusto per lo sparo.

Paddock scattò in avanti con violenza, forzando i primi passi dell’avvio con il risultato di contrarre eccessivamente i muscoli delle gambe e di indurire la sua azione di corsa.

Ai venticinque metri i concorrenti erano praticamente su una stessa linea, ma le lunghe leve di Abrahams e la sua scioltezza di corsa – aspetti tecnici privilegiati da Sam Mussabini nei suoi allenamenti – lo portarono a metà gara decisamente al comando. Ai settanta metri l’inglese, che aveva sferrato il suo attacco finale, aveva un vantaggio di circa mezzo metro sul suo avversario più vicino.
Gli unici avversari che rimasero a contrastarlo furono Scholz e Bowman.
Paddock infatti, era ormai in riserva di energie – l’americano pagò forse in quel momento le divagazioni mondane che si era concesso a Parigi alla vigilia della gara – e cedette di colpo lasciando via libera all’inglese il quale ebbe così partita vinta.

Abrahams nella parte finale della gara riuscì a distendersi e a mantenere la posizione di testa fin sul traguardo che tagliò per primo proiettando in avanti il busto e protendendo all’indietro le braccia, secondo la tecnica tante volte provata in allenamento sotto la guida di Sam Mussabini; egli precedette di un buon mezzo metro il tenace Scholz che fu l’unico ad impegnarlo fino in fondo.

Porritt con uno sbalorditivo finale riuscì a soffiare il terzo posto all’americano Bowman, mentre un deludente Paddock terminò la prova in quinta posizione preceduto anche dal connazionale.
Ultimo, come ad Anversa, ma questa volta battuto senza attenuanti, si classificò Loren Murchison.

Il tempo di gara

Il tempo finale di Abrahams fu ancora una volta eccezionale: 10.3/5 a testimonianza di una sorprendente regolarità di rendimento dell’atleta anche in presenza dell’inasprimento della competizione.
Il cronometraggio elettrico di supporto, che noi, riprendendo un giudizio formulato all’epoca, abbiamo definito “poco attendibile”, attribuì al vincitore il tempo di 10.52 che lascia perplessi in quanto è migliore di quello manuale; oggi invece sappiamo che i tempi elettrici risultano, rispetto ai manuali, appesantiti di 0.24 secondi.
Harold AbrahamsùDopo la gara, che può senza dubbio essere considerata “quella della sua vita”, Abrahams rilasciò molte interviste.
Anche molti anni dopo l’inglese, divenuto giornalista e commentatore di fatti sportivi, tornò spesso a parlare di quell’avvenimento, lasciandoci in proposito molti suoi scritti.

Il tempo della memoria

Ecco cosa ebbe a dire a commento della sua affermazione: “La mia vittoria fu un colpo di fortuna! Con questo non voglio dire che fu solo una circostanza fortuita a portarmi alla vittoria, in quanto per oltre nove mesi avevo lavorato molto duro, coscienziosamente ed accuratamente come nessun altro velocista della mia generazione. In realtà mi allenavo solo tre volte alla settimana, con una gara o due al sabato.

Benché in Inghilterra io avessi vinto tutte le gare alle quali avevo partecipato, non mi illudevo circa la forza degli avversari, particolarmente dei quattro americani, tre dei quali avevano raggiunto la finale ai Giochi Olimpici del 1920, capeggiati dal detentore del primato del mondo, Charles Paddock.

La fortuna l’ho trovata nel raggiungere la migliore condizione di forma al momento giusto.

Harold Abrahams e Jesse Owens
(Harold Abrahams e Jesse Owens)

Veramente io non pensavo di aver alcuna “chance” per una medaglia d’oro, né per nessun altro tipo di medaglia.

Io non ci avevo mai fatto un pensiero, sebbene il mio allenatore, Sam Mussabini, mi avesse inviato prima dell’inizio dei Giochi un messaggio nel quale mi diceva che egli era fermamente convinto che io avrei vinto la mia gara. Ma io non ero in apprensione per questo avvenimento; e questo fu un vero dono di Dio!

Io devo molto alla lungimiranza, passione ed entusiasmo del vecchio Sam! Certamente sotto la sua guida io riuscii a migliorare di quel decisivo un per cento che fa tutta la differenza fra il grande successo e l’anonimato.

Io migliorai perché la mia mente era concentrata tutta sulla mia capacità di essere veloce, molto veloce, e Sam incoraggiava questa mia teoria. Un allenatore non può disputare la gara, l’atleta sì; ma il perfetto accordo che deve esistere fra l’atleta e l’allenatore è il patrimonio più prezioso del sodalizio.

La partenza della finale vide gli atleti muoversi tutti insieme. Io sentii subito di essere partito più veloce degli altri ed in poco più di dieci secondi avevo soddisfatto l’ambizione di una vita.

I Giochi ci danno una opportunità ogni quattro anni ed io pensavo che non avrei partecipato ad un’altra Olimpiade. Dieci secondi…..il sogno di una vita!

Il più piccolo errore – meno di un per cento – e tutto sarebbe andato perso. Che cosa c’è di positivo a giungere secondo in una finale olimpica?

Il nome del vincitore appare per sempre nell’albo dei campioni olimpici, mentre quello del secondo arrivato viene subito dimenticato. I fiori sono tutti per i vincitori; ciò non è giusto, ma questa è la vita!”

Testimoni

Una bella testimonianza di quella gara ci verrà anni dopo da un compagno di Abrahams di quel tempo, Philip Noel-Baker, la medaglia d’argento dei 1.500 metri di Anversa che, divenuto uomo politico, nel 1959 ricevette il Premio Nobel per la Pace.
Egli nel 1948 scrisse la prefazione ad un libretto “Track & Field – Olympic Records” scritto da Abrahams alla vigilia dei Giochi di Londra.
Leggiamola insieme: “Per uno sprinter una finale olimpica è il momento più alto della sua vita di atleta. Considerate le umane probabilità, essa si presenta a lui una sola volta. Per gli amici sprinters una semifinale è ancora più eccitante, per la tensione che essa esercita sulle loro emozioni e sui loro nervi.

Se l’atleta riesce a superare queste difficoltà egli raggiunge l’eletta schiera dei sei finalisti dei giochi olimpici. Se egli fallisce il suo nome sarà presto dimenticato e lui stesso sentirà una temporanea, pungente amarezza di sconfitta.

Io ho assistito da vicino alla partenza delle semifinali dei 100 metri ai Giochi Olimpici di Parigi del 1924. Io non avevo dubbi che Harold Abrahams avrebbe superato il suo ostacolo.

Io ricordavo le sue magnifiche prestazioni in Inghilterra. Egli aveva eguagliato il record olimpico nella sua precedente corsa; io avevo condiviso la camera con lui nel nostro albergo di Parigi ed avevo assistito direttamente ai suoi intensi allenamenti ed avevo visto quanta minuta attenzione egli aveva posto ad ogni dettaglio.

Io avevo assistito a tutto ciò ed avevo provato ad aiutarlo nella sua preparazione psicologica.

Come egli diceva a se stesso, nessun uomo saggio può arrischiare un pronostico sicuro su una vittoria olimpica.

Nel profondo del mio cuore io covavo la speranza che Harold avrebbe vinto. Ma nondimeno io sentii una crescente, pressante tensione quando egli ed i suoi cinque avversari si spogliarono ed andarono a collocarsi «ai loro posti». Il mio istinto non mi ingannava.

Cosa successe solo Harold e lo starter, forse, possono dirlo. Chi può dare una così grande partenza agli sprinters, buona abbastanza per vincere una finale? I prossimi dieci secondi lo dimostreranno.

Harold, una volta che egli ebbe lasciato le buchette, non dette dimostrazione di timore; egli mantenne la sua forma, forse ancor più brillantemente che non nella semifinale. Egli controllò gli altri corridori e vinse nel tempo che fu cronometrato in 10.6!

Io ho sempre creduto che Harold Abrahams fosse il solo sprinter europeo che avrebbe potuto competere con Jesse Owens, Ralph Metcalfe e gli altri grandi sprinters negri degli Stati Uniti. Egli era della loro classe e non solo perché fornito di doti naturali, di un magnifico fisico, di uno splendido temperamento in corsa e di uno straordinario talento nelle grandi occasioni. Egli, come loro, comprendeva l’atletica ed aveva dato più potere intellettuale e più volontà al soggetto che ogni altro corridore del suo tempo.

Da allora Harold Abrahams fu il più attento seguace dell’atletica in Gran Bretagna. Egli ha servito la causa dell’atletica in vari modi.

Egli ha scavato nella storia della disciplina. Il suo amore per la pista e per le prove del campo è divenuto la passione dominante della sua vita.

Per questo motivo ha scritto questo libro sugli attuali Giochi Olimpici.”

Le prime volte di Harold Abrahams

Harold Abrahams fu il primo europeo a vincere una gara di velocità nel contesto olimpico e, fino al 1980, rimase l’unico atleta inglese ad aver vinto il titolo in quella specialità.
Harold partecipò anche alla prova sui 200 metri le cui batterie (anche qui 17) si corsero il giorno dopo e si impose nella decima in 22.2 battendo Paddock.

Nei quarti Abrahams vinse il suo in 22.0 mentre Scholz, vincitore del terzo, fece registrare il miglior tempo correndo in 21.8.

Scholz si ripeté nella prima della due semifinali (9 luglio) in 21.8 battendo il connazionale Hill e lo stesso Abrahams.
Paddock si impose nell’altra semifinale battendo in 21.8 Eric Liddell accreditato dello stesso tempo.

Nella finale Scholz fece valere la sua classe e si impose in 21.6 uguagliando il primato olimpico. Secondo fu il connazionale Paddock e terzo Eric Liddell che due giorni dopo avrebbe trionfato nei 400 metri. Abrahams evidentemente appagato del successo sui 100, non partecipò alla lotta per il titolo e finì sesto in 22.3.

Queste furono le sue parole al termine della gara: “Io non cesserò mai di criticarmi per la prova insignificante offerta. Io avevo una strategia da seguire che era quella di riservare una parte delle mie forze per le ultime 100 yard di gara. Io le ho risparmiate così bene al punto che a bar chiuso avevo ancora in tasca tutti i soldi da spendere per bere!”

La Gran Bretagna con Abrahams in prima corsia e con Liddell a riposo, nulla poté contro gli americani che rinunciarono all’apporto di Paddock e Scholz e si imposero nella 4×100 in 41.0 uguagliando il primato mondiale.
Stranamente questa seconda prova di Abrahams e la staffetta sono state ignorate in Momenti di Gloria!

Dopo Parigi

L’impresa nei 100 metri sembrava però non aver appagato Abrahams che tornato in patria cominciò a pensare ai Giochi di Amsterdam del 1928, la sua terza Olimpiade, dove il suo impegno avrebbe dovuto essere limitato alla sola gara di salto in lungo.
Sarà purtroppo proprio il salto in lungo a porre fine alla sua attività agonistica.

Nel maggio del 1925 durante un incontro svoltosi allo Stamford Bridge fra il club di Abrahams, il Bedfordshire, ed il London Athletic Club, Harold si infortunò seriamente ad una gamba durante l’effettuazione del secondo salto.
Nei giorni successivi all’infortunio, nonostante un pronto intervento operatorio, si temette che Abrahams potesse perdere addirittura la gamba. Invece, dopo sei mesi trascorsi nella più completa immobilità, egli poté riprendere gradualmente a camminare, ma per il resto della sua vita rimase leggermente claudicante.

Abrahams fu pertanto costretto ad interrompere l’attività agonistica e a riversare i suoi interessi su altre attività che comunque rimasero sempre legate al mondo dell’atletica, nonostante che nel frattempo egli avesse conseguito la laurea in legge.
Egli fu corrispondente di molti giornali; scrisse di atletica per il Sunday Times dal 1925 al 1967, collaborò attivamente anche con il World Sports ed il Daily Telegraph e la sua voce divenne una delle più popolari della BBC, per la quale curò le prime trasmissioni sportive.

Nel 1926 fu eletto membro della Athletic Amateur Association e fece parte della Commissione Tecnica della I.A.A.F. insieme a Sigfrid Edström, Billy Holt, Avery Brundage e Bo Ekelund.
Due anni dopo scrisse insieme al fratello Adolphe un manuale intitolato Training for Athletes che ebbe molto successo.
Con J. Bruce-Kerr curò la compilazione di un volume nel quale erano riportati tutti gli incontri sportivi fra le Università di Oxford e di Cambridge, con la lista di tutti i 7.717 “Blues” che vi avevano preso parte dal 1827 al 1930. Egli curò inoltre la stesura del Rapporto dei Giochi di Amsterdam per conto della British Olympic Association.

Nel 1935 (e non nel 1924 come rappresentato per esigenze di sceneggiatura nel film “Chariots of fire”) conobbe e sposò la divorziata Sybil Evers, una cantante di operette molto famosa in quel tempo in Inghilterra. Il loro fu un matrimonio molto felice. La coppia, che abitò per molti anni a Winchmore Hill, adottò due figli Alan e Sue.

Fine corsa mai!

Sybil Evers purtroppo scomparve prematuramente nel 1963 e questa disgrazia colpì profondamente Harold.
Abrahams scrisse molti libri di sport a carattere storico-statistico e divenne una delle personalità di spicco nell’ambiente dell’atletica leggera, tanto che nel 1950 a Bruxelles fu nominato primo Presidente della neonata A.T.F.S. (Association of Track & Field Statisticians); nel novembre del 1976 venne eletto presidente della A.A.A.

Per quarant’anni egli venne considerato la voce dell’atletica britannica e, a parte quelli del 1932, presenziò dal 1920 fino alla sua morte a tutte le edizioni dei Giochi Olimpici.
Molti anni dopo la sua vittoria di Parigi, Abrahams in un suo scritto rivelò che durante la preparazione olimpica egli aveva fatto ricorso ad un tonico stimolante, chiamato Easton Syrup, che conteneva una piccola quantità di stricnina.

Harold Abrahams morì il 14 gennaio del 1978.

Roberto L. Quercetani che lo conobbe e lo incontrò a Bruxelles all’atto della fondazione della A.T.F.S. (Association Track & Field Statisticians), così lo ricordò in un articolo commemorativo:
“Il primo contatto con lui avvenne nel ’48, quando mi scrisse per ottenere dati sui partecipanti ai Giochi di Londra.
Nel ’50, quando undici di noi statistici fondarono a Bruxelles la Association of Track and Field Statisticians, l’idea di nominare Harold Abrahams nostro presidente onorario venne spontanea, non solo per il suo prestigio, anche di legislatore nel settore atletico, ma anche in riconoscimento del fatto che egli era stato, negli anni fra le due guerre mondiali, uno dei rari compilatori di analisi statistiche.
Da allora intrattenemmo con lui rapporti di sincera amicizia. Abrahams poteva definirsi al tempo stesso un conservatore e un radicale: era nel primo di questi canali per il suo innato rispetto delle regole costituite e nel secondo quando la sua ragione gli suggeriva di promuoverne, con energia ma anche con senso pratico, di nuove.
Avemmo con lui, nel corso degli anni, più di una amichevole discussione su temi di comune interesse, l’ultima delle quali nel giugno dell’anno scorso a Torino (n.d.A.: giugno 1977), argomento quel cripto-professionismo che aveva fra l’altro svilito il triangolare Italia-Usa-Inghilterra per il quale ci trovavamo lì. I nostri punti di vista sul futuro dell’atletica non  potevano  dirsi  collimanti:  lui  era un difensore convinto del dilettantismo, sia pure con qualche  concessione alla “realtà dei tempi nuovi”; noi eravamo e siamo a favore di un’atletica “open”, sia pure con determinanti controlli e restrizioni. Al momento di salutarlo (purtroppo per l’ultima volta) ci rivenne in mente una frase del coach-filosofo americano Brutus Hamilton ad un suo amico che gli suggeriva di votare per un candidato politico diverso da quello che Brutus aveva a cuore: “Guarda che bel Paese è mai questo, nel quale tu ed io possiamo nutrire idee diverse ed avere entrambi ragione”.

 

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Gustavo Pallicca Starter internazionale con una passione per i racconti, la fotografia e la storia dell'atletica. Stella d'Oro del CONI al Merito Sportivo (1936-2023)

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